Conferimento Emblema Araldico a Mario Ceccaroni. Recanati 16 gennaio 2025.
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5 settimane fa
Blog di sviluppo per l'approfondimento della Geografia Politica ed Economica attraverso immagini, cartine, grafici e note. Atlante Geografico Statistico Capacità dello Stato. Parametrazione a 100 riferito agli Stati Europei. Spazio esterno del CESVAM - Istituto del Nastro Azzurro. (info:centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org
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![]() Non l’inizio di settembre, come aveva dichiarato il dimissionario David Cameron, ma già dalla scorsa settimana abbiamo un nuovo governo inglese nella pienezza dei suoi poteri guidato dall’ex ministro degli interni Theresa May. Ue, cercasi negoziatore per concludere la Brexit Questa rapidità britannica mette paradossalmente ancora più in difficoltà l’Ue che fino ad oggi non è riuscita a dare una risposta unitaria allo shock creato da Brexit. Con la scusa di dovere attendere la richiesta formale di Londra all’uscita dall’Ue, come prevede l’ambiguo articolo 50 del Trattato, nessun piano B è realmente emerso. Al contrario, subito dopo la proclamazione del risultato referendario, la maggiore preoccupazione europea è stata quella di decidere chi dovesse condurre il negoziato con la Gran Bretagna: la task force rapidamente messa in piedi dal Consiglio europeo e affidata all’ex capo di gabinetto di Van Rompuy, il diplomatico belga Didier Seeuws, è stata essenzialmente un messaggio rivolto alla Commissione e al suo presidente Juncker di non immischiarsi in questa vicenda. Ci penserà il Consiglio europeo ad indicare il negoziatore, come prevede l’art. 188n, e a fissare i paletti del futuro accordo con la Gran Bretagna. Davvero un bell’inizio! Non è tuttavia possibile continuare questi giochetti senza porsi anche la domanda di dove si vuole andare e come si possa meglio utilizzare questa crisi esistenziale dell’Ue per salvare il disegno stesso di una “evercloser Union” messo in forse da Londra. Innanzitutto va deciso da parte dei 27 rimasti quale trattamento riservare alla Gran Bretagna. La questione non è semplice poiché è politicamente necessario dimostrare che l’abbandono dell’Ue non porta vantaggi, ma che anzi il danno di un’uscita è in qualche modo non rimediabile. Un avvertimento, in altre parole, da indirizzare agli altri partner “tiepidi” dell’Ue, magari tentati di seguire l’esempio inglese. Ma su questo argomento si scontrano gli interessi economici e commerciali di alcuni paesi dell’Ue, a cominciare dalla Germania, che hanno enormi interessi nel mercato britannico. La quadratura del cerchio abbandono-interessi non sarà certo semplice da raggiungere, ma è certamente il primo compito che l’Ue dovrà affrontare in attesa che Londra depositi la richiesta di abbandono. Fino ad oggi non si sono visti grandi movimenti in questa direzione, come se ci fosse del tempo prima di doverci pensare. Il futuro dell’Ue? Ci si pensa a Bratislava Ma la vera sfida riguarda il futuro dell’Ue. Stupisce ancora che, vista l’ondata di irrazionalità e di euroscetticismo diffusasi in Europa in questi ultimi anni, non ci si sia cautelati in caso di “leave” con l’approntamento di un vero e proprio piano B. Ma stupisce ancora di più che la prima tappa di un ripensamento sul futuro dell’Ue sia stata fissata solamente alla fine di settembre per una riunione del Consiglio europeo a Bratislava, capitale della nazione che gestisce il semestre di presidenza ma che certo non brilla per il suo europeismo. Ma cosa potrà rientrare nell’agenda di quella riunione? Al di là di una fissazione dei termini del negoziato, dal Consiglio europeo dovrà uscire un messaggio di unità. Il che ci porta subito a dire che sul tavolo dei 27 non potranno esserci disegni di Unione “differenziata” o a “cooperazioni rafforzate”, come in più occasioni fatto balenare alla vigila del referendum britannico. Questo è invece il momento di erigere una barriera comune a difesa dell’unitarietà formale dell’intera area che ricade sotto l’influenza del Trattato di Lisbona. Quindi non è il caso di suggerire nel breve periodo nuove e complesse formule istituzionali all’interno dell’Ue. L’attenzione va quindi rivolta alle politiche. Ripartire dall’economia e dalla sicurezza La prima è certamente quella economica. O riprende la crescita nell’area o l’immagine dell’Ue non potrà fare altro che deteriorarsi sempre di più. Vi è da riconoscere che dopo Brexit, su questo terreno si registrano toni diversi rispetto ad alcune settimane fa. Ne è esempio l’atteggiamento tedesco e della Commissione sul caso delle banche italiane. Ma non sono certo questi episodi di tamponamento di settori in crisi a bastare. Ci vuole molto di più. Ad esempio fare il punto sul piano di investimenti Juncker e se del caso rilanciarlo o completare almeno il progetto di Unione bancaria o riproporre in termini concreti la sfida tecnologica in Europa. Nata sull’economia, questa Unione deve dare il senso di crederci ancora e non basta solo dimostrare capacità di “crisis management” per riconquistare credibilità pubblica. Il secondo grande dossier, anche alla luce della recente strage di Nizza, riguarda la sicurezza e il ruolo di copertura internazionale che l’Ue dovrebbe assicurare ai propri cittadini. Da questo punto di vista fa un po’ tristezze l’accoglienza “burocratica”, due linee in tutto nel comunicato finale, che è stato riservato nel Consiglio europeo di giugno alla presentazione della nuova “European Union Global Strategy” consegnata dall’Alto Rappresentante Federica Mogherini. Si è detto che lo shock inglese era troppo forte per fare di più. Ma in realtà agli altri dossier è stato dedicato qualche spazio e parola più convinta. Va quindi riproposta con forza questa tematica e a Bratislava vanno date indicazioni precise sulle prime iniziative da intraprendere e su “una road map” per costruire una politica di sicurezza e anche difesa comune. Ora non si potrà più sollevare l’alibi inglese per non procedere anche nel campo della difesa. Da qui al prossimo marzo, in occasione del 60esimo anniversario della costruzione dell’Ue, si deve fissare un’agenda precisa di iniziative da varare in comune, con l’obiettivo di indicare alle nostre opinioni pubbliche che l’uscita di Londra costituisce l’opportunità che tutti aspettavamo di un rilancio del disegno di integrazione e non, come suggeriscono gli euroscettici, l’inizio della sua fine. Gianni Bonvicini è vicepresidente vicario dello IAI. |
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![]() Ma a Rajoy è stato utile. Nel 2004 e nel 2008, da delfino di José Maria Aznar, perse due volte le elezioni contro il socialista Zapatero; ma la grossa fronda che voleva la sua testa finì per scomporsi prima che Rajoy cedesse. Durante il suo mandato al governo (2011-2015), una serie di scandali devastarono il partito e colpirono la sua cerchia: l’opinione pubblica, la minoranza interna, perfino i giornali più vicini invocarono le sue dimissioni; finché infine si tornò a parlare d’altro. E tra il 20 dicembre 2015 e il 26 giugno 2016, le ultime due elezioni politiche: chiuse le prime senza che nessuno avesse la maggioranza, Rajoy si tirò fuori dalle trattative di governo. Sembrò un errore grossolano: il Partido Popular, Pp, era pur sempre la prima forza, non voleva usare la sua posizione di potenza? Ma gli altri tre partiti, nonostante sei mesi di discussione, non riuscirono a trovare un accordo. Il 26 giugno, ripetizione elettorale, gli spagnoli diedero ragione a Rajoy, portando il suo Pp dal 28 al 33% con settecentomila voti in più. Ma Rajoy, per il momento, è un premier in sospeso. Neanche così il Pp ha la maggioranza, e deve accordarsi con uno degli altri partiti: nessuno di questi, però, vuole apparire quello che consente la riconferma del vecchio primo ministro. Escludendo Pablo Iglesias - il leader della nuova sinistra di Podemos è estraneo a qualsiasi idea di coalizione con il Pp - Rajoy deve ora vedersela con due rivali. Il meno pericoloso è Albert Rivera: il fondatore di Ciudadanos - nuovo centrodestra liberale - conta sul 13% dei voti. Da dicembre a giugno una parte dei suoi elettori è tornata al Pp: se Rivera ora appoggiasse Rajoy, sembrerebbe un po’ come una ruota di scorta; smentirebbe il suo messaggio di rinnovamento e, implicitamente, sancirebbe l’inutilità del suo partito. Tuttavia - è questo che indebolisce Rivera - Rajoy può fare a meno del suo sostegno: i seggi di Ciudadanos non sono decisivi, perché per arrivare alla maggioranza servono quelli dei socialisti. Podemos, nessun sorpasso Ed è proprio Pedro Sánchez l’antagonista più insidioso. Il 44enne Sánchez è salito dal nulla alla segreteria del Psoe grazie a un accordo tra notabili e rappresentanti del Sud (la cassaforte elettorale socialista). Questi cercavano un giovane, a tempo determinato, che arginasse a sinistra Podemos: nessuno dei big voleva metterci la faccia di persona dato il momentaccio del partito, indebolito dalle conte interne e dall’eredità della gestione Zapatero - che coincise con lo scoppio della crisi economica. “Il movimento è vita” potrebbe essere il motto di Sánchez. Dopo il brutto risultato di dicembre (Psoe al 22%, minimo storico, solo un paio di punti sopra Podemos) il “fronte del Sud”, guidato dalla presidenta dell’Andalusia Susana Díaz, sembrava sul punto di liberarsi di lui per procedere verso la grande coalizione con il Pp, soluzione preferita anche dal dominus Felipe González, premier dal 1982 al 1996. Ma Sánchez, inaspettatamente, prese le redini delle trattative, sfornando proposte di alleanza con Podemos, con Ciudadanos, con entrambi: sfruttando al meglio la posizione dei socialisti (deboli, ma numericamente necessari a ogni combinazione di governo), costrinse all’angolo i suoi nemici interni. Sembrò dire: “se volete la grande coalizione con Rajoy - soluzione mai vista in Spagna, dove popolari e socialisti sono da sempre acerrimi opposti - dovrete prendere posizione apertamente”. Il partito non osò disarcionarlo, forse sperando che ci avrebbero pensato gli elettori: i sondaggi, infatti, pronosticavano per giugno il sorpasso da parte di Podemos non riuscito a dicembre, col Psoe ridotto a terzo partito. Invece, sorpresa: niente sorpasso, nonostante Podemos avesse aggiunto alla sua scuderia eterogenea anche la sinistra radicale di Izquierda Unida. Sánchez e Rajoy in attesa dello scontro Ora, dunque, Sánchez e Rajoy, con le loro strategie e motivazioni differenti, si trovano uno di fronte all’altro, come in un torneo medievale, in attesa dello scontro. Sánchez - abbiamo elencato i motivi - si rifiuta di offrire a Rajoy i seggi che gli servono per formare un governo. Rajoy risponde con la minaccia fine-di-mondo: “niente accordo? Allora rivotiamo per la terza volta a novembre, e tu e il tuo partito sarete spazzati via: dopo un anno senza governo, gli elettori mi daranno la maggioranza assoluta”. Molti, tra i socialisti, temono che Rajoy abbia ragione, e che non ci sarà un secondo miracolo elettorale come quello che ha scongiurato il sorpasso di Podemos: tenteranno di obbligare Sánchez a più miti propositi. Ma per il segretario del Psoe la corda deve restare tesa: elezioni in novembre significa rinvio del congresso del partito, cioè della possibilità di essere fatto fuori; significa anche tenere a bada Podemos proponendosi come punto di riferimento della sinistra, senza dubbio contro il Pp. La pazienza invece potrebbe favorire ancora una volta Rajoy: se i tempi si allungano, fino a dopo le elezioni basche di ottobre, prima delle quali i partiti locali non si schierano, il capo del Pp potrebbe puntare sul Partito nazionalista basco: ha cinque soli seggi che però, con quelli di Ciudadanos, renderebbero superfluo l’accordo coi socialisti. Chi la spunterà? Sánchez, per evitare la resa dei conti elettorale, può anche provare a formare una coalizione di sinistra con Podemos, nazionalisti baschi e catalani; opzione remota, ma non impossibile. “Quando fai una minaccia, sii sicuro di avere i mezzi per portarla a termine”: questa massima di Machiavelli è stata traslata dal commentatore Enric Juliana all’attuale situazione spagnola. Solo una cosa è certa: tra i due concorrenti del torneo, ora in corsa uno contro l’altro, uno finirà irrimediabilmente disarcionato. Riccardo Pennisi è collaboratore di Limes, Ispi, Il Mattino e coordinatore delle tematiche europee presso Aspenia. |
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![]() Il referendum ha messo a nudo divisioni profonde nella società britannica - generazionali, di classe, tra le varie nazionalità che la compongono. Ha dato maggiore credibilità agli argomenti delle forze anti-Ue in Europa e reso plausibile la prospettiva di un’ulteriore frammentazione dell’Unione. Ha aumentato la possibilità di un’Ue ingovernabile e pertanto a rischio economicamente e incapace di contribuire alla gestione degli affari internazionali. Benché plausibile, questo scenario a tinte fosche non è scritto. Molto dipenderà dalla capacità dei leader europei e britannici di ridefinire la relazione Gb-Ue in modo da salvaguardare il più possibile i vantaggi che la membership Ue del Regno Unito garantiva. Sul piano economico, la soluzione migliore sarebbe l’adesione del Regno Unito allo Spazio economico europeo (See). Dal momento che il See offre pieno accesso al mercato unico, la Brexit non intralcerebbe il commercio Ue-Gb né comprometterebbe la capacità della City di Londra di continuare ad offrire servizi finanziari in tutta l’Unione. Mercato unico e cooperazione tra autorità giudiziarie e di polizia Di grande importanza è anche la cooperazione in materia di sicurezza e affari interni. Il Regno Unito già gode di un regime speciale in questo campo, visto che è fuori dall’accordo Schengen sulla libera circolazione dei cittadini Ue e può scegliere a piacimento se partecipare alle iniziative di cooperazione integrata in seno all’Ue. Negoziare accordi separati che mantengano il più possibile l’attuale livello di cooperazione in materia di anti-terrorismo e lotta alla criminalità organizzata non dovrebbe essere impossibile. Europol, l’ufficio Ue di coordinamento di polizia, ha già concluso accordi con stati terzi che potrebbero funzionare da modello. Lo stesso vale per Eurojust, l’ufficio di coordinamento delle autorità giudiziarie. Più difficile, ma non impossibile, è trovare una forma di accordo di estradizione che ricalchi da vicino il Mandato d’arresto europeo, che ha enormemente accelerato i tempi di estradizione tra i paesi Ue. Un discorso simile vale per la politica estera e difesa. Dal momento che in quest’ambito l’Ue già decide all’unanimità, la cooperazione Ue-Gb continuerebbe a svolgersi su base intergovernativa. Londra e Bruxelles dovrebbero istituire un forum di dialogo permanente per discutere questioni di mutuo interesse, come le relazioni con la Russia o la crisi in Medio Oriente e Nord Africa. A Londra dovrebbe essere anche lasciata la possibilità di partecipare alle missioni militari e civili Ue, così come fanno altri stati. In conclusione, un accordo che dia al Regno Unito pieno (o quasi) accesso al mercato unico, salvaguardi la cooperazione tra autorità giudiziarie e di polizia britanniche ed europee, e crei meccanismi di coordinamento strutturati in politica estera e difesa è l’opzione migliore tra quelle disponibili. Ciò non vuol dire che sia di facile attuazione, soprattutto per quanto attiene alla sua dimensione economica. I membri del See devono infatti contribuire al bilancio Ue, consentire la libera circolazione dei lavoratori e conformarsi a regole fissate a Bruxelles. L’opposizione a queste misure, si ricordi, è precisamente ciò su cui i fautori della Brexit hanno costruito il successo della campagna referendaria. Theresa May e la carta della pazienza Non è il caso di disperare, tuttavia.La credibilità del campo pro-Brexit è in calo. I suoi leader sono divisi e privi di un’idea chiara su come gestire il post-referendum. I mercati restano volatili, le prospettive sull’economia negative, la City preoccupata, l’opinione pubblica più disorientata di quanto fosse prima del voto. È probabile che il prossimo leader dei conservatori - e quindi del governo - provenga dalle file moderate del partito. Il ministro degli interni Theresa May, un’euroscettica contraria alla Brexit, è la favorita. La May predica pazienza, così come giustamente raccomanda la cancelliera tedesca Angela Merkel. Accelerare i tempi di uscita senza un governo credibile a Londra non ha senso dal punto di vista dell’Ue. Meglio dare tempo ai britannici di individuare opzioni che possano ottenere il massimo consenso nazionale possibile. Non è escluso che la necessità di ricucire le divisioni interne, scoraggiare il separatismo scozzese, tutelare la City e salvaguardare gli interessi di sicurezza britannici spingano il governo britannico a cercare una forma di associazione all’Ue particolarmente avanzata. Mettere da parte orgoglio e recriminazione Di certo l’opzione See-plus non è interamente praticabile, vista l’impossibilità per il Regno Unito di restare nel mercato unico senza garantire la libera circolazione del lavoro. Ma esistono margini di compromesso, anche sul fronte dell’immigrazione, che l’Ue dovrebbe prendere in considerazione nonostante la comprensibile riluttanza nelle istituzioni e capitali europee ad accordare altre concessioni a Londra. Del resto, l’accesso al mercato unico comporta che il governo britannico non partecipi alla definizione delle regole del mercato unico - un prezzo salatissimo per un paese orgoglioso come il Regno Unito. Data la posta in palio, e cioè evitare il crollo delle relazioni economiche Ue-Gb e l’indebolimento reciproco che ne potrebbe derivare, Londra e Bruxelles devono mettere da parte orgoglio e recriminazioni e giocare al meglio la pessima carta che i cittadini britannici hanno passato loro la notte del 23 giugno. Riccardo Alcaro è responsabile di ricerca presso lo Iai. | ||||||||
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![]() Il referendum era eretto a espressione suprema della democrazia. A pochi giorni di distanza, il marasma in cui il risultato a fatto cadere il paese invita a una riflessione più ponderata. Nella mente dei suoi cultori, il referendum (qui non si parla di quelli su temi puntuali comuni in Svizzera e altrove) dovrebbe essere lo strumento con cui la democrazia decide questioni che i rappresentanti eletti non riescono a risolvere, oppure per cui non sanno interpretare le convinzioni profonde del popolo. Se così fosse, il ricorso alla democrazia diretta dovrebbe avere il risultato di ricomporre l’unità di un paese lacerato dall’incapacità della sua classe dirigente. L’esperienza ci dice che non succede quasi mai. Il referendum che divide Se ripercorro le principali esperienze referendarie del dopoguerra, l’unico caso in cui il pronunciamento popolare ha effettivamente ricomposto l’unità di un paese che era appena uscito da una guerra civile, è quello del 1946 che ha visto la vittoria della repubblica in Italia; ciò malgrado che il risultato fosse stato fino all’ultimo incerto e da alcuni contestato. Eppure la frattura non era solo politica e sociale, ma anche geografica. Se il paese si è rapidamente unito intorno alla Costituzione repubblicana, lo si deve esclusivamente alla saggezza della classe dirigente dell’epoca. Non conosco altri casi simili. Prendiamo la Francia che nella V Repubblica ha fatto del referendum uno dei pilastri della sua forma di governo. I referendum di De Gaulle erano consultazioni su lui stesso; li vinse finché il paese in mancanza di alternative continuò a credere in lui. Le ferite aperte allora hanno tuttavia continuato a bruciare. Quando nel 1981 i socialisti vinsero le elezioni, una parte del paese continuò a considerarli “non legittimi” perché avevano rifiutato le riforme del generale. Lo stesso successe con i più importanti referendum di Mitterrand e di Chirac, su Maastricht e la Costituzione europea; tutti lasciarono un paese diviso senza peraltro risolvere definitivamente le questioni per cui erano stati indetti. Per quale ragione ciò che dovrebbe unire contribuisce invece ad allargare le divisioni? La prima ragione è che gli elettori votano per il quesito, ma anche e soprattutto per altre numerose ragioni spesso contraddittorie: ciò che pensano del governo che ha indetto la consultazione, la loro situazione personale, il loro giudizio sullo stato del paese e del mondo. In secondo luogo, la democrazia rappresentativa funziona per compromessi successivi in cui per definizione nessuna delle parti in causa può ritenersi interamente soddisfatta; ciò vale per la politica nazionale come per l’Europa. Se il risultato di un faticoso compromesso (è sempre il caso delle questioni europee) è sottoposto a referendum, i presupposti dell’accordo si dissolvono e le posizioni si polarizzano di nuovo. Il popolo vota contro il compromesso raggiunto dai suoi rappresentanti per ragioni spesso opposte. La fiera della demagogia Il referendum britannico ha aggiunto altri elementi a questa degenerazione. La campagna ha visto un conflitto dei fatti contro i miti, delle paure contro le menzogne, con picchi di demagogia che nessuno si aspettava nella democrazia più consolidata d’Europa. Certo, gli elettori hanno manifestato la loro avversione all’Ue, peraltro oggetto di anni di sistematica denigrazione su quasi tutti i grandi media nazionali. Molti hanno reagito alla diffusa paura dell’immigrazione. Hanno però anche dato sfogo nelle zone a prevalenza laburista alle loro paure rispetto alla globalizzazione e alla loro avversione verso l’austerità del governo conservatore (che per inciso nel caso della Gran Bretagna non ha nulla a che fare con il fiscal compact). In altri casi hanno invece votato per l’illusione del ritorno a un’Inghilterra vittoriana, liberata dai laccioli socialistoidi e dirigisti del continente. Certo, l’immagine di un’Europa incerta e divisa ha pesato. Tuttavia se avessimo presentato agli elettori una Ue più coesa ed efficiente, si sarebbe rafforzato il principale argomento dei Boris Johnson, quello di un’inarrestabile deriva federale. Il paese non è solo diviso geograficamente e sul piano generazionale, ma sta implodendo l’intero sistema politico: paradossalmente i laburisti ancor più dei conservatori.Una sola cosa sembra accertata: il problema del rapporto del paese con l’Unione europea è lungi dall’essere risolto. Il principale valore della democrazia è che resta il modo più civile di scegliere chi ci governa; a volte la scelta cade su dei mediocri, ma a volte su dei pericolosi demagoghi. A chi, nonostante tutte queste lezioni, credesse ancora nel valore salvifico della democrazia diretta e domanda le dimissioni della classe dirigente nazionale ed europea, a chi condivide la terrificante frase di Michael Gove (il Bruto di Boris Johnson) “il popolo è stanco degli esperti”, sono dedicate queste memorabili parole di Alexander Hamilton: “The republican principle demands that the deliberate sense of the community should govern the conduct of those to whom they intrust the management of their affairs; but it does not require an unqualified complaisance to every sudden breeze of passion, or to every transient impulse which the people may receive from the arts of men, who flatter their prejudices to betray their interests”. Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore del volume “L'Unione europea: una storia non ufficiale”, Longanesi editore. |
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![]() Dopo il referendum dello scorso 23 giugno in Gran Bretagna che ha visto la maggioranza dei votanti scegliere l'uscita dall'Ue si è aperto un periodo di incertezza in merito alle modalità e alle tempistiche del divorzio, con buona probabilità che il tema capitalizzi la maggior parte degli sforzi della presidenza slovacca. Per questi motivi, l'agenda della presidenza slovacca è stata adottata il 30 giugno, ad una settimana dal voto inglese, in discontinuità con la tradizionale presentazione un mese prima dell'assunzione dell'incarico. Fico, l’Orbàn slovacco Intervenendo sulla Brexit prima del voto, il Primo Ministro slovacco Robert Fico aveva sottolineato come il referendum, indipendentemente dal suo risultato, avrebbe preso atto di un'evoluzione della Ue in un'Europa a due velocità, in cui il processo di integrazione è destinato ad interessare solo i Paesi dell'eurozona, lasciando spazio a forme di cooperazione su base volontaria e meno stringenti con gli altri membri. Fico aveva quindi riconosciuto il potenziale centrifugo di questa prospettiva, ma aveva assicurato che il futuro di Brastilava è parte dell'Ue e dell'eurozona. Proprio su quest'ultimo tema il Primo Ministro è intervenuto più volte, lanciando l'allarme sulla necessità di preservare l'identità culturale del proprio Paese a fronte di un'immigrazione incontrollata. Proprio facendo leva su sentimenti nazionalisti e xenofobi, il governo slovacco ha fatto ricorso alla Corte europea di Giustizia in merito al piano di redistribuzione dei migranti fra i Paesi membri promosso dalla Commissione e ha mantenuto una retorica anti-islamica, definendo i musulmani come impossibili da integrare. Fico è al terzo mandato e a capo di una coalizione divenuta necessaria dopo le elezioni del 5 marzo scorso che hanno visto la perdita della maggioranza parlamentare del suo partito Smer Sd. Dichiaratamente social-democratico, lo Smer ha in realtà molto da spartire con le formazioni politiche populiste di sinistra che hanno consolidato la propria posizione nella scena politica dell’Europa mediterranea. L'Ue vuole risolvere in più fretta possibile il "divorzio" con la Gran Bretagna, proprio per evitare che un ennesimo immobilismo delle istituzioni europee possa favorire i partiti euroscettici, già incoraggiati dal risultato del voto e decisi a ripeterlo nei rispettivi Paesi. La necessità dell'Europa di implementare delle politiche efficaci volte a temperare la disaffezione in crescita resta una priorità. Slovacchia, ostacolo alle politiche migratorie? Per questi motivi, a Bruxelles si guarda con preoccupazione alla presidenza della Slovacchia, temendo che il Paese possa diventare un ostacolo nella definizione delle strategie per far fronte alla crisi migratoria, secondo tema centrale del semestre europeo. La Slovacchia è infatti parte del gruppo Visegrád (con Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria), fortemente opposto alle politiche di accoglienza e redistribuzione dei migranti ed è stato in prima linea per premere e favorire la chiusura della rotta balcanica l’autunno scorso. Il 7 giugno la Commissione europea ha presentato un nuovo piano nel quadro dell'European Agenda on Migration, con l'obiettivo di investire in Paesi terzi e ridurre il flusso di migranti verso l'Europa. I fondi messi a disposizione - 8 miliardi nel periodo 2016-2020 - saranno vincolati al rispetto di parametri definiti dall'Ue e contano sul coinvolgimento del settore privato e dei Paesi membri, sperando in un effetto moltiplicativo, sulla falsariga del Piano Juncker presentato nel 2014. Proprio su questo tema, la Slovacchia si è dichiarata contro dei meccanismi obbligatori per i Paesi membri e ha sollevato molti dubbi in merito a una guardia costiera comune per la protezione dei confini esterni dell'Ue che non risponda direttamente ai governi nazionali. Agenda mediocre Al netto delle paure di Bruxelles, certo è che la Slovacchia non vuole spendere il semestre europeo dedicandosi al crisis management. Diplomatici slovacchi hanno rivelato che l'agenda si occuperà di diverse tematiche, proseguendo da un lato nel solco del lavoro portato avanti dai Paesi Bassi, dovendo per esempio chiudere entro l'anno con la definizione del bilancio per il 2017 e continuare con i negoziati sul Ttip, mentre dall'altro lato si vuole accelerare sull'Energy Union e sul Digital Single Market. Il ministro degli Esteri Miroslav Lajčák ha fatto eco alle posizioni di molti leader europei che hanno chiesto alla Gran Bretagna di avviare il processo di fuoriuscita previsto dall'art. 50 del Trattato sull'Unione europea. Tuttavia, un negoziato rapido ed ordinato non sembra plausibile. Le premesse, insomma, non sono le migliori per portare avanti un'agenda ambiziosa, visti i temi pressanti che stanno capitalizzando il discorso europeo. In un momento così delicato, tuttavia, la Slovacchia dovrebbe avere tutto l'interesse a placare le paure di Bruxelles e favorire la stabilità del blocco, rischiando, al contrario, di essere messa ai margini del processo decisionale. Matteo Garnero è stagista dell’area Europa dello IAI. |
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![]() Ma quel che è certo è che esso rivela in quale trappola si sia andata a cacciare l’Unione europea, Ue. Voto dopo voto - dalla Grecia all’Olanda, dalla Spagna alla Gran Bretagna e domani, probabilmente, l’Italia e forse la Francia - gli elettori si polarizzano su letture contrapposte della crisi che essi patiscono. Le due Europe Il fatto è che “Europa” oggi significa due cose contrastanti e antitetiche. E più si spinge su un significato e più l’altro paradossalmente si rafforza. Per le istituzioni politiche e le principali forze economiche, per le élite del denaro, della conoscenza e delle professioni, per i giovani più istruiti e cosmopoliti, “Europa” vuol dire libertà di scelta e movimento, opportunità di investimento e progetto, valori e diritti dell’individuo. Viceversa per tutti coloro che vengono impoveriti da questo tipo di globalizzazione - i lavoratori meno istruiti e i giovani senza prospettive, chi subisce “riforme” che accrescono insicurezza e precarietà, chi può solo affidarsi a servizi pubblici tanto essenziali quanto sempre più lesinati, dalla sanità all’istruzione - “Europa” è venuta a significare impoverimento e incertezza: un’incessante perdita del controllo sulla propria esistenza. La focalizzazione ossessiva sulle migrazioni ce lo dice con chiarezza: chiudere le porte per riacquisire un qualche grado di controllo “in casa nostra” è una pulsione tanto illusoria quanto rivelatrice. E la polemica contro le élite lontane e insensibili, o corrotte e rapaci, non è meno sintomatica della profonda alienazione da ciò che esse hanno costruito. Quale Europa VS Più Europa È inutile ripetere che la Ue non è la sola responsabile di questo stato di cose, che i governi nazionali l’hanno usata come capro espiatorio delle proprie manchevolezze, o che gli Stati Uniti di Donald Trump rivelano lo stesso malessere. Sono affermazioni corrette, ma a questo punto anche irrilevanti perché inservibili. Con il mercato unico, le frontiere aperte, la libertà di movimento dei capitali e, soprattutto, la moneta unica e le sue austere regole di bilancio, l’Ue è si è assunta il ruolo di interfaccia tra i cittadini e i marosi della globalizzazione. Ragione per cui si è caricata della responsabilità dei loro effetti: di quelli positivi come di quelli dirompenti. E siccome essa appare - e in larga misura è - sottratta al controllo della deliberazione democratica, la protesta di chi subisce e patisce la globalità si indirizza proprio contro di lei. Visto che a livello nazionale o locale gli elettori pensano di poter ancora contare, la loro domanda insoddisfatta si indirizza lì, nella speranza o l’illusione che la democrazia nazionale sia l’ambito per scelte correttive. Per questo la risposta a Brexit che dice “più Europa” ora e subito rischia di essere controproducente. Chi come me gode più che altro vantaggi materiali e simbolici dall’Unione è istintivamente portato a una reazione ulteriormente integrativa. L’“Europa” per me è un valore, in quasi tutti i sensi, e una risposta di tipo federalista ha una sua astratta razionalità. Ma a questo punto come non vedere - dopo tutte le prove che abbiamo avuto! - che per molti elettori “più Europa” appare solo come un ulteriore schiaffo, un’ennesima umiliante marginalizzazione? Il problema non è più o meno “Europa” ma quale. In particolare quale Unione europea? Per fare cosa? L’Ue risponda alla marginalizzazione sociale In fondo, è proprio la ripetitiva uniformità del discorso che ci ostiniamo a definire “populista”, la somiglianza del profilo sociologico e culturale degli elettori scontenti, a indicare la radice del problema. Se vuole invertire la dinamica ormai prorompente d’erosione del consenso elettorale, se vuole consolidare invece che disgregare il senso d’identificazione collettiva, l’“Europa” non deve essere la scelta tra questa o quella geometria istituzionale, ma una strategia efficace di risposta alla marginalizzazione economica, sociale e culturale di milioni di europei. L’Europa può salvare sé stessa solo se inverte la rotta adottando una priorità assoluta di crescita economica, con massicci investimenti pubblici che rianimino la domanda, se necessario con controlli sui capitali come sulle migrazioni, sicuramente con sostegni efficaci (pagati da tassazioni più progressive) ai servizi essenziali, ai meno abbienti, ai disoccupati. Senza questa profonda inversione di rotta l’Ue rischia davvero di soccombere. O abbiamo bisogno di altre dimostrazioni per convincercene? Che tale svolta accada è, purtroppo, assai improbabile. Richiederebbe una revisione culturale profonda per buona parte delle élite europee, e una disponibilità degli elettori e contribuenti tedeschi che non è dato di vedere. L’Italia farà quindi bene a insistere per una simile strategia di crescita, ma anche a prepararsi a un diverso orizzonte. Se l’Europa insiste ad auto-disgregarsi, ogni nazione ha il diritto-dovere di salvare il proprio contratto sociale democratico, se necessario anche forzando i vincoli europei che stanno sbriciolando le fondamenta sociali dell’Europa unita. Federico Romero, Istituto Universitario Europeo. | ||||||||
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![]() Rilanciare per non soccombere Anche se parte del futuro dell’Ue dipenderà dalla gestione del dossier del recesso del Regno Unito - al quale si potrebbe sommare quello sui possibili modelli per inquadrare una nuova eventuale relazione tra Londra e i 27 -, appare più che mai necessaria un’azione di rilancio politico. Certamente, come l’esito referendario in Gran Bretagna ha messo in luce, le condizioni attuali non sono le più feconde per un rilancio: la perdita di attrattività da parte dell’Ue, il deterioramento del demos europeo, l’ascesa di partiti anti-europeisti e le previsioni sempre più fosche per il futuro non costituiscono la base migliore per un rafforzamento dell’integrazione. Tuttavia, il campanello d’allarme è suonato con vigore; quindi, se si vuole evitare la disgregazione dell’Unione, non si può rimandare oltre ma bisogna agire e farlo con risolutezza e coraggio. Per frenare le dinamiche di rinazionalizzazione che rischiano di frammentare definitivamente l’Ue serve un deciso passo in avanti, una risposta concreta alle domande di una cittadinanza evidentemente in difficoltà e sempre meno fiduciosa nell’impianto comunitario. Per farlo, occorre partire dalle questioni percepite come più urgenti e problematiche da parte dei cittadini europei e dove l’Ue non è stata capace di proporre soluzioni all’altezza: la disoccupazione e la questione migratoria. Riformare la governance economica dell’Unione, superando finalmente le divergenze dei paesi membri al riguardo, permetterebbe di dotare le istituzioni europee di strumenti validi per fornire risposte efficaci sui due fronti citati. Su entrambi i dossier l’Italia può dire la sua. E non solo perché è tra le più esposte a queste questioni, ma anche perché è uno dei pochi Paesi fondatori, insieme a Germania, Belgio e Lussemburgo, che sembra ancora tenere al disegno di un’Unione più stretta. Non è quindi un caso che sia stata Roma a portare a Bruxelles proposte come quella delMigration compact e del sussidio di disoccupazione europeo, un’iniziativa che cercava di rendere l’unione monetaria non solo uno strumento di stabilità, ma anche di crescita e lavoro. Risorse comuni per problemi comuni Considerando le dinamiche geopolitiche del vicinato europeo, è facile prevedere che i fenomeni migratori interesseranno i confini dell’Ue per molto tempo a venire. Tentare di gestirli come un’emergenza e rimandare dunque le riforme della governance alla fine della crisi non è possibile né auspicabile. Al contrario, accelerare sulla via dell’integrazione economica e dotare l’Unione di unafiscal capacity, cioè di un vero e proprio bilancio dotato di risorse proprie, rappresenterebbe il punto di svolta da cui ripartire per risolvere la crisi migratoria e non solo. Fornire all’Ue gli strumenti di natura finanziaria necessari per poter rispondere alle sfide poste dalle ondate migratorie rappresenta un punto di partenza irrinunciabile. Lasciare che i soli stati in cui arrivano i profughi si facciano carico del peso economico della loro accoglienza per poi concepire apposite eccezioni che permettano loro di non rispettare le regole comunitarie in fatto di bilancio pubblico è sintomatico dell’incapacità dell’Europa di agire come un unicum e di avere una visione di lungo termine. Ciò non rappresenta una novità; ma il crescente malcontento popolare che ha spinto la Brexit e il successo di partiti come il Front National di Marine Le Pen fanno capire che questa strada non è più percorribile. Un bilancio proprio alimentato da risorse comunitarie e non nazionali potrebbe permettere inoltre di rispondere in maniera più proattiva all’altro problema che alimenta la sfiducia dei cittadini europei verso la costruzione comunitaria: gli alti e persistenti livelli di disoccupazione. Le risorse proprie del bilancio comunitario, se adeguate, potrebbero essere usate sia per attivare il sussidio di disoccupazione europeo proposto dall’Italia sia per la promozione di politiche attive del lavoro, quantomai necessarie nel contesto europeo. La disoccupazione è strettamente legata alle performance economiche deludenti di molti paesi europei, soprattutto quelli della zona euro. La gestione di risorse fiscali comuni rappresenterebbe in tal senso anche un primo passo verso quel completamento dell’Unione monetaria europea necessario per rafforzare la resilienza della stessa agli shock e per poter permettere alle economie dei paesi membri dell’euro di tornare a crescere. La speranza nelle mani dei giovani Insistere sulla crescita e sulla lotta alla disoccupazione, anzitutto quella giovanile, sembra lo strumento migliore per ridare speranza a un progetto il cui destino dipende soprattutto dai più giovani. Non solo perché il futuro è, anagraficamente, in mano a loro, ma anche perché i dati provenienti dalle urne britanniche mostrano come questi siano i più convinti a rimanere nell’Unione. Nella speranza che crescano numericamente come cittadini e come elettori (solo il 36% degli aventi diritto sotto i 25 anni è andato ai seggi per dire la sua sulla Brexit), è però necessario rilanciare sin da ora un progetto che sia in grado di attrarre tutti i delusi. Anche quegli adulti che tra il mondo piccolo nel quale sono nati e quello più grande nel quale oggi vivono rimpiangono il primo, convinti che la soluzione a tutti i loro problemi sia il ritorno all’insularità. Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir. Simone Romano è ricercatore dello IAI. | ||||||||
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![]() Quei movimenti sono presenti oramai in molti paesi europei; non possiamo sottovalutare il pericolo di scivolare su un piano inclinato di rivendicazioni e rincorse nazionalistiche che può mettere in pericolo la stessa sopravvivenza dell’Unione. Una risposta politica dell’Ue, o di una cerchia più stretta dei suoi paesi fondatori o dei suoi maggiori paesi, non può mancare. Purché sappiamo identificare con lucidità gli obbiettivi. ![]() Londra e il mercato interno europeo Dovremo decidere, in primo luogo, che cosa fare con il Regno Unito. Secondo me il problema è molto complicato per il Regno Unito, molto meno per l’Unione. Londra deve decidere niente di meno se vuol restare nel mercato interno europeo, o se ne vuole uscire. La cosa forse non ancora ben compresa tra i fautori inglesi del Leave è che questo è un pacchetto che si compera tutto insieme, o non si compera affatto. Le quattro libertà di circolazione - delle merci, dei servizi, dei capitali e delle persone - sono un caposaldo del Trattato istitutivo dell’Unione (Tue) e non sono separabili. Non si può, in particolare avere le prime tre e lasciar cadere la quarta. Su questo non vi sarà e non vi può essere alcun negoziato tra l’Unione e il Regno Unito (sempre che resti unito dopo l’esito sciagurato del referendum). L’obiettivo di chiudere le frontiere ai lavoratori immigrati dagli altri paesi dell’Unione è stato uno dei cavalli di battaglia vincenti nella campagna pro-Brexit. Tornare indietro, per gli inglesi, non sarà facile; ma penso che sarà inevitabile, perché i costi economici della perdita dell’accesso al mercato interno dell’Unione sarebbero devastanti - in primis per la City, che perderebbe la sua funzione di porta d’ingresso per i grandi capitali dal resto del mondo verso l’Unione europea. Così, ecco il grande paradosso: il Regno Unito molto probabilmente continuerà ad obbedire alle regole europee, incluse le decisioni della Corte europea di giustizia, ma non parteciperà più alla loro scrittura. Come ripresa del controllo su propri destini, non c’è male. Tenere i negoziati separati La scelta della strategia negoziale sarà più complicata. Il Regno Unito tenderà a ritardare la notifica prevista dall’articolo 50 del Tue, per cercare di unificare i due tavoli delle modalità del recesso e della definizione del nuovo assetto dei rapporti con l’Unione. Bruxelles non ha motivo di unificare i due tavoli. Non lo chiede l’articolo 50, che fa solo riferimento all’esigenza di “tenere conto del quadro delle future relazioni con l’Unione” del paese uscente. Non lo suggeriscono le ragioni di tattica negoziale, dato che collegare le questioni sui due tavoli conviene evidentemente solo al Regno Unito. Né vi sarebbe molto da guadagnare per l’Unione se accettasse di incominciare a negoziare il futuro assetto delle relazioni con il Regno Unito prima ancora di aver ricevuto la notifica dell’intenzione di recedere e, più importante, prima di conoscere il mandato con il quale il Parlamento inglese chiederà al suo governo di avviare la procedura di recesso. Unione non solo sopravvive, ma si rafforza Qualche breve considerazione sul rilancio dell’Unione. Quel che cercherei di fare non è di immaginare ambiziose riforme dei Trattati, che oggi non sono possibili, ma di consolidare con decisione quel che già si sta facendo sui diversi fronti dell’economia, dell’immigrazione e della sicurezza - ristabilendo anche, laddove necessario, l’autorità delle istituzioni comuni nei confronti degli stati membri che non applicano le decisioni comuni, ad esempio in materia di immigrazione. Dunque, si tratta anzitutto di riprendere il negoziato sull’unione bancaria, completandola con l’assicurazione unica dei depositi bancari e un sistema comune di garanzia fiscale di ultima istanza. Il negoziato è bloccato per l’incapacità di trovare un equilibrio tra le richieste della Germania di ridurre i rischi nei bilanci della banche della periferia (leggi anzitutto Italia) e quella della periferia meridionale di accettare una condivisione maggiore dei rischi. Poiché la condivisione dei rischi implica inevitabilmente elementi di unione fiscale, essa porta con sé in prospettiva l’istituzione di una figura di ministro europeo delle finanze, dotato di poteri discrezionali di intervento per fare rispettare gli indirizzi comuni di politica economica fissati dal Consiglio. Questa figura dovrebbe rispondere dei suoi atti non solo al Consiglio, ma anche al Parlamento europeo, trovando in quella sede una accresciuta fonte di legittimità democratica. Sull’immigrazione, bisogna ristabilire l’integrità degli accordi di Schengen, ridare credibilità alle decisioni comuni in materia di gestione dei flussi migratori e dare concreata attuazione alle idee italiane di un migration compact che preveda significativi investimenti per lo sviluppo nei paesi che dobbiamo convincere a collaborare a fermare i flussi migratori. Sulla sicurezza, incomincerei dando attuazione alle decisioni già preparate per il prossimo Consiglio europeo per l’istituzione di una polizia comune di frontiera dell’unione. La ciliegia sulla torta sarebbe una incisiva iniziativa per la crescita e l’occupazione, soprattutto giovanile, come hanno indicato di voler fare i capi di governo di Germania, Francia e Italia nella dichiarazione congiunta dopo la riunione di Berlino il 27 giugno. Insomma, più che a irrealistici balzi in avanti, che non ci saranno, dobbiamo pensare a decisioni concrete fattibili, anche se non facili, che dimostrino che l’Unione non solo sopravvive, ma si rafforza. Se le cose sono ben fatte e chiaramente spiegate, anche il filo del consenso dell’opinione pubblica può incominciare a riallacciarsi. Stefano Micossi è Direttore generale dell’Assonime. | ||||||||