“Il popolo ha parlato e ha schiaffeggiato le élites”. Dopo il clamoroso voto britannico, chiunque osasse denunciare l’abisso di menzogna e demagogia che aveva caratterizzato la campagna, era tacciato di arroganza e ogni espressione di rammarico era bollata come “un insulto agli elettori”.
Il referendum era eretto a espressione suprema della democrazia. A pochi giorni di distanza, il marasma in cui il risultato a fatto cadere il paese invita a una riflessione più ponderata.
Nella mente dei suoi cultori, il referendum (qui non si parla di quelli su temi puntuali comuni in Svizzera e altrove) dovrebbe essere lo strumento con cui la democrazia decide questioni che i rappresentanti eletti non riescono a risolvere, oppure per cui non sanno interpretare le convinzioni profonde del popolo.
Se così fosse, il ricorso alla democrazia diretta dovrebbe avere il risultato di ricomporre l’unità di un paese lacerato dall’incapacità della sua classe dirigente. L’esperienza ci dice che non succede quasi mai.
Il referendum che divide Se ripercorro le principali esperienze referendarie del dopoguerra, l’unico caso in cui il pronunciamento popolare ha effettivamente ricomposto l’unità di un paese che era appena uscito da una guerra civile, è quello del 1946 che ha visto la vittoria della repubblica in Italia; ciò malgrado che il risultato fosse stato fino all’ultimo incerto e da alcuni contestato.
Eppure la frattura non era solo politica e sociale, ma anche geografica. Se il paese si è rapidamente unito intorno alla Costituzione repubblicana, lo si deve esclusivamente alla saggezza della classe dirigente dell’epoca. Non conosco altri casi simili.
Prendiamo la Francia che nella V Repubblica ha fatto del referendum uno dei pilastri della sua forma di governo. I referendum di De Gaulle erano consultazioni su lui stesso; li vinse finché il paese in mancanza di alternative continuò a credere in lui. Le ferite aperte allora hanno tuttavia continuato a bruciare.
Quando nel 1981 i socialisti vinsero le elezioni, una parte del paese continuò a considerarli “non legittimi” perché avevano rifiutato le riforme del generale. Lo stesso successe con i più importanti referendum di Mitterrand e di Chirac, su Maastricht e la Costituzione europea; tutti lasciarono un paese diviso senza peraltro risolvere definitivamente le questioni per cui erano stati indetti.
Per quale ragione ciò che dovrebbe unire contribuisce invece ad allargare le divisioni? La prima ragione è che gli elettori votano per il quesito, ma anche e soprattutto per altre numerose ragioni spesso contraddittorie: ciò che pensano del governo che ha indetto la consultazione, la loro situazione personale, il loro giudizio sullo stato del paese e del mondo.
In secondo luogo, la democrazia rappresentativa funziona per compromessi successivi in cui per definizione nessuna delle parti in causa può ritenersi interamente soddisfatta; ciò vale per la politica nazionale come per l’Europa.
Se il risultato di un faticoso compromesso (è sempre il caso delle questioni europee) è sottoposto a referendum, i presupposti dell’accordo si dissolvono e le posizioni si polarizzano di nuovo. Il popolo vota contro il compromesso raggiunto dai suoi rappresentanti per ragioni spesso opposte.
La fiera della demagogia Il referendum britannico ha aggiunto altri elementi a questa degenerazione. La campagna ha visto un conflitto dei fatti contro i miti, delle paure contro le menzogne, con picchi di demagogia che nessuno si aspettava nella democrazia più consolidata d’Europa.
Certo, gli elettori hanno manifestato la loro avversione all’Ue, peraltro oggetto di anni di sistematica denigrazione su quasi tutti i grandi media nazionali. Molti hanno reagito alla diffusa paura dell’immigrazione. Hanno però anche dato sfogo nelle zone a prevalenza laburista alle loro paure rispetto alla globalizzazione e alla loro avversione verso l’austerità del governo conservatore (che per inciso nel caso della Gran Bretagna non ha nulla a che fare con il fiscal compact).
In altri casi hanno invece votato per l’illusione del ritorno a un’Inghilterra vittoriana, liberata dai laccioli socialistoidi e dirigisti del continente. Certo, l’immagine di un’Europa incerta e divisa ha pesato. Tuttavia se avessimo presentato agli elettori una Ue più coesa ed efficiente, si sarebbe rafforzato il principale argomento dei Boris Johnson, quello di un’inarrestabile deriva federale.
Il paese non è solo diviso geograficamente e sul piano generazionale, ma sta implodendo l’intero sistema politico: paradossalmente i laburisti ancor più dei conservatori.Una sola cosa sembra accertata: il problema del rapporto del paese con l’Unione europea è lungi dall’essere risolto.
Il principale valore della democrazia è che resta il modo più civile di scegliere chi ci governa; a volte la scelta cade su dei mediocri, ma a volte su dei pericolosi demagoghi.
A chi, nonostante tutte queste lezioni, credesse ancora nel valore salvifico della democrazia diretta e domanda le dimissioni della classe dirigente nazionale ed europea, a chi condivide la terrificante frase di Michael Gove (il Bruto di Boris Johnson) “il popolo è stanco degli esperti”, sono dedicate queste memorabili parole di Alexander Hamilton: “The republican principle demands that the deliberate sense of the community should govern the conduct of those to whom they intrust the management of their affairs; but it does not require an unqualified complaisance to every sudden breeze of passion, or to every transient impulse which the people may receive from the arts of men, who flatter their prejudices to betray their interests”.
Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore del volume “L'Unione europea: una storia non ufficiale”, Longanesi editore.
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