All’indomani del voto con il quale Londra ha ufficialmente deciso di divorziare dall’Unione europea, Ue, quanti hanno a cuore il futuro dell’Europa e la continuazione del progetto alla base dell’Unione non possono esimersi dall’individuare un percorso attraverso il quale confinare la Brexit, evitando un pericoloso effetto domino.
Rilanciare per non soccombere Anche se parte del futuro dell’Ue dipenderà dalla gestione del dossier del recesso del Regno Unito - al quale si potrebbe sommare quello sui possibili modelli per inquadrare una nuova eventuale relazione tra Londra e i 27 -, appare più che mai necessaria un’azione di rilancio politico.
Certamente, come l’esito referendario in Gran Bretagna ha messo in luce, le condizioni attuali non sono le più feconde per un rilancio: la perdita di attrattività da parte dell’Ue, il deterioramento del demos europeo, l’ascesa di partiti anti-europeisti e le previsioni sempre più fosche per il futuro non costituiscono la base migliore per un rafforzamento dell’integrazione.
Tuttavia, il campanello d’allarme è suonato con vigore; quindi, se si vuole evitare la disgregazione dell’Unione, non si può rimandare oltre ma bisogna agire e farlo con risolutezza e coraggio. Per frenare le dinamiche di rinazionalizzazione che rischiano di frammentare definitivamente l’Ue serve un deciso passo in avanti, una risposta concreta alle domande di una cittadinanza evidentemente in difficoltà e sempre meno fiduciosa nell’impianto comunitario.
Per farlo, occorre partire dalle questioni percepite come più urgenti e problematiche da parte dei cittadini europei e dove l’Ue non è stata capace di proporre soluzioni all’altezza: la disoccupazione e la questione migratoria. Riformare la governance economica dell’Unione, superando finalmente le divergenze dei paesi membri al riguardo, permetterebbe di dotare le istituzioni europee di strumenti validi per fornire risposte efficaci sui due fronti citati.
Su entrambi i dossier l’Italia può dire la sua. E non solo perché è tra le più esposte a queste questioni, ma anche perché è uno dei pochi Paesi fondatori, insieme a Germania, Belgio e Lussemburgo, che sembra ancora tenere al disegno di un’Unione più stretta. Non è quindi un caso che sia stata Roma a portare a Bruxelles proposte come quella delMigration compact e del sussidio di disoccupazione europeo, un’iniziativa che cercava di rendere l’unione monetaria non solo uno strumento di stabilità, ma anche di crescita e lavoro.
Risorse comuni per problemi comuni Considerando le dinamiche geopolitiche del vicinato europeo, è facile prevedere che i fenomeni migratori interesseranno i confini dell’Ue per molto tempo a venire. Tentare di gestirli come un’emergenza e rimandare dunque le riforme della governance alla fine della crisi non è possibile né auspicabile.
Al contrario, accelerare sulla via dell’integrazione economica e dotare l’Unione di unafiscal capacity, cioè di un vero e proprio bilancio dotato di risorse proprie, rappresenterebbe il punto di svolta da cui ripartire per risolvere la crisi migratoria e non solo.
Fornire all’Ue gli strumenti di natura finanziaria necessari per poter rispondere alle sfide poste dalle ondate migratorie rappresenta un punto di partenza irrinunciabile. Lasciare che i soli stati in cui arrivano i profughi si facciano carico del peso economico della loro accoglienza per poi concepire apposite eccezioni che permettano loro di non rispettare le regole comunitarie in fatto di bilancio pubblico è sintomatico dell’incapacità dell’Europa di agire come un unicum e di avere una visione di lungo termine.
Ciò non rappresenta una novità; ma il crescente malcontento popolare che ha spinto la Brexit e il successo di partiti come il Front National di Marine Le Pen fanno capire che questa strada non è più percorribile.
Un bilancio proprio alimentato da risorse comunitarie e non nazionali potrebbe permettere inoltre di rispondere in maniera più proattiva all’altro problema che alimenta la sfiducia dei cittadini europei verso la costruzione comunitaria: gli alti e persistenti livelli di disoccupazione.
Le risorse proprie del bilancio comunitario, se adeguate, potrebbero essere usate sia per attivare il sussidio di disoccupazione europeo proposto dall’Italia sia per la promozione di politiche attive del lavoro, quantomai necessarie nel contesto europeo.
La disoccupazione è strettamente legata alle performance economiche deludenti di molti paesi europei, soprattutto quelli della zona euro. La gestione di risorse fiscali comuni rappresenterebbe in tal senso anche un primo passo verso quel completamento dell’Unione monetaria europea necessario per rafforzare la resilienza della stessa agli shock e per poter permettere alle economie dei paesi membri dell’euro di tornare a crescere.
La speranza nelle mani dei giovani Insistere sulla crescita e sulla lotta alla disoccupazione, anzitutto quella giovanile, sembra lo strumento migliore per ridare speranza a un progetto il cui destino dipende soprattutto dai più giovani. Non solo perché il futuro è, anagraficamente, in mano a loro, ma anche perché i dati provenienti dalle urne britanniche mostrano come questi siano i più convinti a rimanere nell’Unione.
Nella speranza che crescano numericamente come cittadini e come elettori (solo il 36% degli aventi diritto sotto i 25 anni è andato ai seggi per dire la sua sulla Brexit), è però necessario rilanciare sin da ora un progetto che sia in grado di attrarre tutti i delusi. Anche quegli adulti che tra il mondo piccolo nel quale sono nati e quello più grande nel quale oggi vivono rimpiangono il primo, convinti che la soluzione a tutti i loro problemi sia il ritorno all’insularità.
Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir. Simone Romano è ricercatore dello IAI.
|
Nessun commento:
Posta un commento