Crisi ucraina Ritorno a Minsk, con poche speranze Alessandro Pandolfi 10/05/2016 |
Il fragile cessate il fuoco tra le forze di Kiev e quelle separatiste del Donbass, sostenute militarmente dalla Russia, è oggetto di attenzione da parte di tutte le grandi potenze interessate al conflitto.
Il pericoloso focolaio di violenze che ha causato l’amputazione della sovranità ucraina e un grave stato di tensione a livello internazionale è stato raffreddato tramite le negoziazioni nel “formato Normandia” e gli accordi di Minsk-2. I 13 punti del processo di pace concordati in Bielorussia sostituiscono i precedenti accordi del settembre 2014, collassati sotto il peso delle continue violazioni e della minaccia di una escalation su larga scala.
Incontro del gruppo di contatto sull’Ucraina
E proprio mentre l’intesa sembrava sul punto di collassare, la Pasqua ortodossa e le festività di maggio hanno interrotto per alcuni giorni le ostilità. Il gruppo di contatto formato da Russia, Ucraina e Osce ha ottenuto una tregua: tra il 1° e il 9 maggio le armi hanno taciuto, alleviando le sofferenze della popolazione civile.
Sia l’Osce che i principali ministri degli esteri europei hanno più volte invitato le parti a prendersi le proprie responsabilità e a fare passi concreti verso il rispetto degli accordi presi che, viziati da interessi contrastanti e ambiguità nell’intesa, si trovano in un vero e proprio limbo.
L’11 maggio si terrà l’incontro nel formato Normandia (Francia, Germania, Russia e Ucraina), anticamera di un nuovo meeting del gruppo di contatto trilaterale di Minsk (Osce, Russia e Ucraina) sull’implementazione dei punti concordati.
L’impasse delle elezioni nelle province orientali
Sul tavolo restano una serie di questioni irrisolte che hanno evidenziato come la precedente intesa non sia andata molto al di là di un congelamento del fronte.
La prima è il tema dell'autonomia delle regioni orientali, di cui si discute da mesi. Con il termine “autonomia”, il Cremlino e i membri delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk intendono sostanzialmente un’ampia federalizzazione che deleghi poteri cruciali, anche in materia di politica estera, con evidenti ricadute concrete.
Kiev immagina invece un decentramento che soddisfi le parti in causa senza sacrificare ulteriormente la propria sovranità.
Il punto è strettamente legato alle elezioni da tenere nelle aree orientali, come da accordi di Minsk. Le autoproclamate repubbliche non vogliono sottostare alla disciplina elettorale ucraina, come voluto da Kiev e previsto dall’intesa.
Il disaccordo discende dal grado del tutto insoddisfacente di “specificità” previsto dalla riforma costituzionale in attesa del voto definitivo della Rada, oltre che dal deplorato scarso coinvolgimento dei rappresentanti di Donetsk e Lugansk.
Questa mancata partecipazione discende dalla volontà di Kiev di trattare solo con i rappresentanti eletti dalle popolazioni orientali e non con elementi legittimati in modo extra-legale o dall’estero.
Le autorità ucraine non intendono tuttavia tenere alcuna elezione locale fino al recupero dei controlli alla frontiera con la Federazione, altro punto concordato tra le parti. Il presidente Petro Poroshenko ha recentemente suggerito di autorizzare una missione armata dell’Osce per vigilare sulle future elezioni, eventualità attualmente al vaglio dell'istituzione internazionale e delle varie cancellerie.
Berlino e Parigi hanno chiesto ripetutamente a Kiev di approvare la legge elettorale prevista dagli accordi. La norma che ne definisce i contenuti, assieme alla riforma costituzionale e alla conseguente legislazione sullo status speciale, costituisce il centro della discordia e delle difficoltà legislative ucraine.
Per tutto febbraio e marzo i ministri degli Esteri francese e tedesco hanno esercitato pressioni per una velocizzazione delle riforme ucraine, anche a costo di compromessi.
Mosca ha sempre insistito sulla necessità di una “federalizzazione” di tutte le regioni e di uno “status speciale” per i territori di Donetsk e Lugansk al fine di conseguire una soluzione del conflitto nella parte orientale dell’Ucraina. La Federazione russa e i suoi referenti sono insoddisfatti del grado di coinvolgimento dei secessionisti nel processo di revisione.
Criticità e opportunità in gioco
La soluzione dello stallo è legata a doppio filo alla volontà del Cremlino, ma anche al deterioramento delle condizioni politiche ed economiche di Kiev, tanto da far parlare qualche commentatore, poco prima del varo del nuovo governo, di un possibile collasso del sistema ucraino, con tutto quanto ne conseguirebbe.
I prossimi incontri segneranno anche il vero e proprio debutto del governo Groysman, votato dalla Rada il 14 aprile dopo le dimissioni di Arseniy Yatsenyuk e del suo governo ormai di minoranza. Pur mantenendo invariato l’orientamento politico, il nuovo esecutivo ha posto tra le priorità il decentramento e le riforme.
Una nota di speranza arriva dalla corte costituzionale che a metà marzo ha sbloccato la possibilità di velocizzare gli emendamenti costituzionali, rendendo potenzialmente più rapido il processo di riforma. Questo richiede tuttavia un’alta maggioranza nella seconda lettura.
Tuttavia l’impressione è che la soluzione delle questioni procedurali non condurrà alla fine del conflitto. Lo dimostra il livello eccezionalmente alto di combattimenti verificatosi tra febbraio e marzo e la distanza che ancora divide le parti.
La querelle sulle elezioni è infatti una mera conseguenza dell’insoddisfazione orientale per la riforma costituzionale, che non attribuirebbe il potere di condizionare le scelte internazionali dell'Ucraina, identificato come vero obiettivo e “linea rossa” di Mosca.
Al momento pare improbabile una ripresa delle ostilità su ampia scala o il tandem elezioni-annessione, con quest’ultima per nulla scontata. Più probabile un ennesimo “conflitto congelato”, che potrebbe risultare la soluzione migliore per la Federazione, garantendo una presenza nell’area ad un costo politico ed economico relativamente basso.
Si è ancora distanti da una piena soluzione politica. Nonostante sia possibile immaginare un’imminente accelerazione del processo di riforma, gli incontri di Minsk saranno difficilmente un punto di svolta definitivo, a meno di inattese concessioni tra le parti.
L’entrata in vigore del cessate il fuoco ha ridotto la magnitudine del conflitto ma la mancanza di volontà e di capacità concrete rende difficoltosa una duratura soluzione del rebus ucraino.
Alessandro Pandolfi è laureato in Relazioni Internazionali presso l’Università degli Studi di Milano.
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Il pericoloso focolaio di violenze che ha causato l’amputazione della sovranità ucraina e un grave stato di tensione a livello internazionale è stato raffreddato tramite le negoziazioni nel “formato Normandia” e gli accordi di Minsk-2. I 13 punti del processo di pace concordati in Bielorussia sostituiscono i precedenti accordi del settembre 2014, collassati sotto il peso delle continue violazioni e della minaccia di una escalation su larga scala.
Incontro del gruppo di contatto sull’Ucraina
E proprio mentre l’intesa sembrava sul punto di collassare, la Pasqua ortodossa e le festività di maggio hanno interrotto per alcuni giorni le ostilità. Il gruppo di contatto formato da Russia, Ucraina e Osce ha ottenuto una tregua: tra il 1° e il 9 maggio le armi hanno taciuto, alleviando le sofferenze della popolazione civile.
Sia l’Osce che i principali ministri degli esteri europei hanno più volte invitato le parti a prendersi le proprie responsabilità e a fare passi concreti verso il rispetto degli accordi presi che, viziati da interessi contrastanti e ambiguità nell’intesa, si trovano in un vero e proprio limbo.
L’11 maggio si terrà l’incontro nel formato Normandia (Francia, Germania, Russia e Ucraina), anticamera di un nuovo meeting del gruppo di contatto trilaterale di Minsk (Osce, Russia e Ucraina) sull’implementazione dei punti concordati.
L’impasse delle elezioni nelle province orientali
Sul tavolo restano una serie di questioni irrisolte che hanno evidenziato come la precedente intesa non sia andata molto al di là di un congelamento del fronte.
La prima è il tema dell'autonomia delle regioni orientali, di cui si discute da mesi. Con il termine “autonomia”, il Cremlino e i membri delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk intendono sostanzialmente un’ampia federalizzazione che deleghi poteri cruciali, anche in materia di politica estera, con evidenti ricadute concrete.
Kiev immagina invece un decentramento che soddisfi le parti in causa senza sacrificare ulteriormente la propria sovranità.
Il punto è strettamente legato alle elezioni da tenere nelle aree orientali, come da accordi di Minsk. Le autoproclamate repubbliche non vogliono sottostare alla disciplina elettorale ucraina, come voluto da Kiev e previsto dall’intesa.
Il disaccordo discende dal grado del tutto insoddisfacente di “specificità” previsto dalla riforma costituzionale in attesa del voto definitivo della Rada, oltre che dal deplorato scarso coinvolgimento dei rappresentanti di Donetsk e Lugansk.
Questa mancata partecipazione discende dalla volontà di Kiev di trattare solo con i rappresentanti eletti dalle popolazioni orientali e non con elementi legittimati in modo extra-legale o dall’estero.
Le autorità ucraine non intendono tuttavia tenere alcuna elezione locale fino al recupero dei controlli alla frontiera con la Federazione, altro punto concordato tra le parti. Il presidente Petro Poroshenko ha recentemente suggerito di autorizzare una missione armata dell’Osce per vigilare sulle future elezioni, eventualità attualmente al vaglio dell'istituzione internazionale e delle varie cancellerie.
Berlino e Parigi hanno chiesto ripetutamente a Kiev di approvare la legge elettorale prevista dagli accordi. La norma che ne definisce i contenuti, assieme alla riforma costituzionale e alla conseguente legislazione sullo status speciale, costituisce il centro della discordia e delle difficoltà legislative ucraine.
Per tutto febbraio e marzo i ministri degli Esteri francese e tedesco hanno esercitato pressioni per una velocizzazione delle riforme ucraine, anche a costo di compromessi.
Mosca ha sempre insistito sulla necessità di una “federalizzazione” di tutte le regioni e di uno “status speciale” per i territori di Donetsk e Lugansk al fine di conseguire una soluzione del conflitto nella parte orientale dell’Ucraina. La Federazione russa e i suoi referenti sono insoddisfatti del grado di coinvolgimento dei secessionisti nel processo di revisione.
Criticità e opportunità in gioco
La soluzione dello stallo è legata a doppio filo alla volontà del Cremlino, ma anche al deterioramento delle condizioni politiche ed economiche di Kiev, tanto da far parlare qualche commentatore, poco prima del varo del nuovo governo, di un possibile collasso del sistema ucraino, con tutto quanto ne conseguirebbe.
I prossimi incontri segneranno anche il vero e proprio debutto del governo Groysman, votato dalla Rada il 14 aprile dopo le dimissioni di Arseniy Yatsenyuk e del suo governo ormai di minoranza. Pur mantenendo invariato l’orientamento politico, il nuovo esecutivo ha posto tra le priorità il decentramento e le riforme.
Una nota di speranza arriva dalla corte costituzionale che a metà marzo ha sbloccato la possibilità di velocizzare gli emendamenti costituzionali, rendendo potenzialmente più rapido il processo di riforma. Questo richiede tuttavia un’alta maggioranza nella seconda lettura.
Tuttavia l’impressione è che la soluzione delle questioni procedurali non condurrà alla fine del conflitto. Lo dimostra il livello eccezionalmente alto di combattimenti verificatosi tra febbraio e marzo e la distanza che ancora divide le parti.
La querelle sulle elezioni è infatti una mera conseguenza dell’insoddisfazione orientale per la riforma costituzionale, che non attribuirebbe il potere di condizionare le scelte internazionali dell'Ucraina, identificato come vero obiettivo e “linea rossa” di Mosca.
Al momento pare improbabile una ripresa delle ostilità su ampia scala o il tandem elezioni-annessione, con quest’ultima per nulla scontata. Più probabile un ennesimo “conflitto congelato”, che potrebbe risultare la soluzione migliore per la Federazione, garantendo una presenza nell’area ad un costo politico ed economico relativamente basso.
Si è ancora distanti da una piena soluzione politica. Nonostante sia possibile immaginare un’imminente accelerazione del processo di riforma, gli incontri di Minsk saranno difficilmente un punto di svolta definitivo, a meno di inattese concessioni tra le parti.
L’entrata in vigore del cessate il fuoco ha ridotto la magnitudine del conflitto ma la mancanza di volontà e di capacità concrete rende difficoltosa una duratura soluzione del rebus ucraino.
Alessandro Pandolfi è laureato in Relazioni Internazionali presso l’Università degli Studi di Milano.
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