Europa

Cerca nel blog

Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

martedì 31 maggio 2016

venerdì 27 maggio 2016

Immigrazione: verso nuove soluzioni

Immigrazione
Riformare Dublino per risvegliare l’Ue
Vincenzo Guizzi
16/05/2016
 più piccolopiù grande
Non si può negare che l’immigrazione abbia assunto un carattere strutturale nell’ambito del processo di integrazione europea. Essa tuttavia costituisce anche una "cartina di tornasole" per verificare il rispetto delle norme comunitarie (a partire dagli stessi Trattati), anzi della stessa identità dell’Unione, da parte di non pochi Paesi membri.

Non si tratta tanto del non rispetto dell’Accordo di Schengen - peraltro ormai “comunitarizzato” -, ma piuttosto di alcune norme che si possono, a giusto titolo, definire di natura costituzionale. Tra le più importanti quelle contenute negli articoli 2 e 3 del Trattato sull’Unione europea (Tue), 20 e 21, 77-80 del Trattato sul funzionamento dell’Unione (Tfue), nonché gli articoli 1-6, 20-25, 35 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione.

Valori dell’Ue traditi
Le misure assunte da alcuni Paesi membri e il trattamento riservato ai migranti tradiscono i valori fondanti dell’Unione (solidarietà, dignità umana, libertà, uguaglianza), ma vanificano anche alcuni risultati importanti del processo di unificazione: la cittadinanza europea e la conseguente libertà di circolazione della persone (non più soltanto quella dei lavoratori, già sancita nei Trattati originari).

Il vero nodo resta sempre quello di un’efficace controllo delle frontiere esterne dell’Unione, che si sarebbe dovuto affrontare sin dall’avvio dello “Spazio Schengen” e che ora diventa urgente, improrogabile, sciogliere.

Al di là delle considerazioni strettamente giuridiche o ispirate a criteri umanitari, non si considera che la chiusura delle frontiere interne mette in percolo il funzionamento di tutto il mercato interno con conseguenti ingenti costi all’economia dell’Unione. Questa affermazione è confortata dalla recente dichiarazione del Ministro Pier Carlo Padoan: la crisi di Schengen è più pericolosa di quella dell’Euro.

Migration Compact 
Il governo italiano e la stessa Commissione europea hanno di recente presentato interessanti proposte per far fronte, su nuove basi, alle crescenti immigrazioni dall’Est e dall’altra sponda del Mediterraneo, anche attraverso le modifiche ad alcuni strumenti normativi esistenti.

Il Migration Compact del nostro Governo punta su: un più efficace controllo delle frontiere esterne, con una Guardia costiera europea; una stretta collaborazione con i Paesi terzi per l’identificazione e per il rilascio dei documenti di viaggio; un supporto, anche finanziario, a questi Paesi nella gestione dei flussi finanziari; un nuovo sistema di asilo; la lotta ai traffici di esseri umani.

Per i profili finanziari si prevedono: un nuovo Strumento finanziario per l’azione esterna nel campo dell’emigrazione; migration bonds europei; un nuovo fondo per investimenti nei Paesi terzi. Quest’ultimo è particolarmente significativo, perché tende a risolvere all’origine il problema dell’emigrazione, avviando un processo di sviluppo economico nei paesi di origine.

Viene in mente il dibattito già negli anni ’60 sul contenimento dell’emigrazione all’interno della Comunità attraverso una politica di sviluppo regionale, anche al fine di rendere effettivamente “libera” (e non condizionata dal sottosviluppo di alcune regioni) la circolazione dei lavoratori comunitari.

Revisione del regolamento di Dublino 3
Accogliendo in parte la posizione italiana, le proposte della Commissione puntano ad una revisione del regolamento 604/13 sulla determinazione dello Stato membro competente per le domande di asilo (cd. “Dublino 3”), al fine di stabilire una più equa ripartizione dei pesi e delle responsabilità tra i vari Paesi membri; ad una maggiore armonizzazione delle procedure di asilo; alla modifica del mandato dell’Agenzia per l’asilo; al rafforzamento del sistema Eurodac; ad un sistema “strutturato” di reinsediamento.

In merito alla modifica del regolamento n. 604/13 va segnalato il lavoro svolto da alcuni studiosi di diritto europeo, coordinati dall’avv. Paolo Gonnelli, che hanno preparato una proposta di nuova disciplina della “protezione internazionale”, interamente sostitutiva del reg. n.604/2013.

Per esigenza di brevità se ne ricordano schematicamente i punti salienti.Si pone, innanzitutto l’accento sul rispetto della libertà di circolazione e stabilimento, all'interno dell'Unione europea, delle persone cui sia stata accordata la “protezione internazionale” (in modo da attenuare il timore che il riconoscimento di tale protezione da parte di uno Stato coincida con la permanenza definitiva dei beneficiari nel medesimo Stato).

Si richiede un’equa ripartizione fra tutti gli Stati dell’Unione dei costi inerenti alle procedure di esame delle domande di protezione internazionale (in modo che lo svolgimento di tali compiti non si accompagni a maggiori oneri per gli Stati che vi provvedono) e un conseguente meccanismo di “incentivi” a favore degli Stati che provvedono alla accoglienza temporanea dei richiedenti protezione e all'esame delle relative domande.

Si attribuisce la competenza ad esaminare le domande di protezione agli Stati richiedenti (eliminando del tutto il riferimento al paese di primo ingresso). Si prevede la possibilità di richiedere la protezione internazionale anche fuori del territorio dell’Unione europea (presso appositi centri da istituire in collaborazione con altri Enti internazionale in prossimità dei campi profughi o in aree relativamente sicure ad essi adiacenti; presso alcuni siti internazionali, quali Missioni Ue o rappresentanze diplomatiche previamente identificate; presso i valichi di frontiera terrestri, marittimi ed aeroportuali).

La proposta prevede l’identificazione dei richiedenti protezione nei luoghi in cui essa viene richiesta, l’esame della domanda di protezione e il trasporto degli stessi dal luogo di presentazione della richiesta al Paese accogliente mediante “canali umanitari” (con mezzi di trasporto terrestri, aerei o navali).

Questa proposta può apparire provocatoria - e in larga misura vuole esserlo - nei confronti di alcuni Paesi comunitari, che si oppongono con ogni mezzo ai flussi migratori, ma è venuto il momento di lanciare pietre nello stagno dell’attuale politica europea. C’è da chiedersi dove è finita l’Unione che i suoi padri costituenti avevano disegnato e, soprattutto dove è finita la nostra umanità.

Vincenzo Guizzi è uno studioso di diritto e politica dell’Unione europea e Organo di vigilanza dello IAI.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3454#sthash.ZTPlHkV4.dpuf

UCRAINA: alla ricerca di una stabilità politica

Ucraina
Kiev nelle mani dell'uomo del presidente
Giovanna De Maio
17/05/2016
 più piccolopiù grande
A circa due anni da euromaidan l’Ucraina stenta a trovare una stabilità politica. Dopo mesi di stallo in seguito alla crisi di governo del febbraio di quest’anno, l’insediamento del nuovo governo presieduto da Volodymyr Groysman assomiglia molto a una manovra tutto fumo e niente arrosto.

Da un colpo di scena a un altro
Lo scorso febbraio il parlamento ucraino, la Verhovna Rada, è stato il teatro di un episodio piuttosto particolare. Una prima mozione - approvata la mattina del 16 febbraio - con una maggioranza di 247 voti (compresi i 120 del Blocco Poroshenko) - aveva giudicato insufficiente il lavoro del governo dell’allora primo ministro Arseniy Yatsenyuk.

Tuttavia, solo qualche ora più tardi, sulla mozione di sfiducia al governo si sono espressi favorevolmente soltanto 194 deputati, numero non sufficiente per raggiungere il quorum necessario a far cadere l’esecutivo.

L’episodio rientra in una prassi piuttosto consolidata in Ucraina dove generalmente, in assenza di sostegno popolare, il presidente tende a far ricadere le colpe sul primo ministro, incoraggiandone le dimissioni.

La caduta del governo di Yatsenyuk e le eventuali elezioni anticipate non avrebbero di certo giovato alla credibilità internazionale dell’Ucraina - di per sé già compromessa - e nemmeno allo stesso presidente ucraino Petro Poroshenko.

La caduta di Yatseniuk
Dopo mesi di stallo e sommerso dalle critiche, Yatsenyuk ha rassegnato le dimissioni il 10 aprile, giustificando la sua decisione dichiarando che "La crisi di governo è stata innescata artificialmente, il desiderio di sostituire una persona ha accecato i politici e paralizzato la loro volontà di apportare cambiamenti reali nel paese".

Quando ha assunto la carica di primo ministro dopo euromaidan, Yatsenyuk si era definito un kamikaze in riferimento alle difficoltà di intraprendere riforme strutturali che avrebbero comportato ingenti costi politici. Così è stato ed è innegabile che Yatsenyuk abbia fatto quanto di meglio fosse in suo potere per traghettare l’Ucraina fuori dalla crisi.

Effettivamente, bisogna darne atto, Kiev è riuscita a contenere la guerriglia nel Donbass e a varare una serie di riforme, anche impopolari, come quelle del settore energetico (che hanno comportato un aumento del prezzo del gas) che erano necessarie per instradare il paese verso un’economia di mercato.

Tuttavia le frizioni con Poroshenko e le difficoltà di gestire un parlamento troppo frammentato e poco collaborativo non hanno giovato a Yatsenyuk e così l’Ucraina si trova dov’è oggi.

Groysman, il nuovo primo ministro vicino a Poroshenko
Tra le dimissioni di Yatsenyuk e l’insediamento di Groysman sono passati quattro giorni durante i quali si è fatto fatica ad accordarsi con Poroshenko circa l’assegnazione dei ministeri. A prima vista sembra che il nuovo esecutivo sia più politico rispetto al precedente, che era composto principalmente da tecnocrati.

Groysman è il più giovane primo ministro nella storia dell’Ucraina, è membro del Blocco Poroshenko ed è noto per la sue efficienza e il suo apporto riformatore per la città di Vinnytsya della quale è stato sindaco prima di diventare speaker della Rada.

In tale veste tuttavia non sempre è stato al riparo da ambiguità, come quando ha votato contro le riforme promosse dal ministero delle finanze sebbene fossero necessarie per adempiere agli obblighi imposti dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi).

In molti a Kiev hanno espresso preoccupazione circa la vicinanza di Groysman a Poroshenko, tuttavia quest’aspetto non è da considerarsi del tutto negativo. Precedentemente, nella storia ucraina, il vicendevole scarico di colpe tra primo ministro e presidente si è spesso tradotto in una stasi.

Stavolta, la vicinanza tra i due potrebbe rivelarsi positiva perché legando il destino dell’uno ai successi dell’altro i favorirebbe la collaborazione tra i due sul processo delle riforme. Ciononostante secondo l’ex ambasciatore Usa in Ucraina, Steven Pifer, non bisogna nutrire grandi speranze per questo nuovo governo che molto probabilmente non sarà in grado di raggiungere i risultati (seppur contenuti) di quello precedente.

L’Ucraina non è too big to fail
Il cammino è ancora lungo e la pazienza dell’Occidente non è infinita. Il Fmi terrà gli occhi ben aperti sull’esecutivo prima di procedere con il versamento della tranche di fondi prevista per ottobre e sospesa per la lentezza delle riforme.

Accanto alle misure anti-corruzione, ciò su cui la comunità internazionale insiste è la l'implementazione degli accordi di Minsk. In particolare, il governo ucraino deve lavorare a una legge che consenta lo svolgimento delle elezioni nel Donbass e al varo di riforme costituzionali volte a concedere una maggiore autonomia alla regione, indispensabili per la stabilizzazione del Paese.

Giovanna De Maio è dottoranda di ricerca presso l'Università degli Studi di Napoli L'Orientale; è stata stagista per la comunicazione presso lo IAI.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3455#sthash.7auQrmPP.dpuf

Austria: ultima possibilità per rimettersi in carreggiata

Europa
Austria, salvataggio in corner 
Francesco Bascone
24/05/2016
 più piccolopiù grande
Evitata, per un soffio, la conferma dei pronostici della vigilia. Quanti già vedevano l'Austria come il primo Paese di vecchia democrazia rappresentato da un estremista di destra sono stati costretti a ricredersi. A spuntarla è stata alla fine il verde van Der Bellen. Indipendentemente dai tre punti decimali che hanno deciso tale esito, domenica però entrambi i candidati potevano sentirsi soddisfatti.

Superiore alle aspettative è stata la rimonta dell'ex-leader dei Verdi: doveva conquistare un altro 30% dell'elettorato, mentre a Norbert Hofer, del partito delle libertà, Fpoe, ne bastava la metà. Se Van Der Bellen è riuscito nell’impresa è anche grazie anche alle indicazioni di voto contro Hofer date, dopo un iniziale riserbo, sia dalla candidata arrivata terza al primo turno, che da alcuni notabili democristiani e dal neo-cancelliere socialista, Christian Kern.

Ma non tutti i loro elettori hanno ottemperato: cinque su otto tra quanti appartengono al primo gruppo, metà del secondo, tre quarti del terzo. Quanti voti sarà costato allo stimato professore di economia il fatto di essere un ateo, ex-massone e fumatore incallito?

Austria divisa
Hofer può vantarsi di aver aggiunto al 35% di sostenitori acquisiti al primo turno un 15% di benevolmente neutrali. Avendo sfondato l'ostracismo dei partiti tradizionali, può affermare che è lui a rappresentare il popolo scontento dei partiti. E allora il parlamento non è più rappresentativo, servono elezioni anticipate; il suo sodale Heinz Christian Strache, già sicuro della maggioranza relativa, cavalcherà questa onda del 50%, sarà Cancelliere.

Van der Bellen, e quindi il fronte anti-Fpoe, ha una solida maggioranza fra i giovani (56%), le donne, le persone istruite (70%); nelle quattro maggiori città supera il 60%. Hofer guida nel resto del paese, con pochissime eccezioni; e fra gli operai, già feudo dei socialisti, raggiunge il 70%.

Ma lasciamo ai quotidiani l'analisi sociologica di questa elezione. Quello che qui interessa sono le ripercussioni all'estero, le prospettive a breve e medio termine per il governo Kern appena insediato, l'evoluzione del sistema politico austriaco.

L' Europa vedrà dissolversi per ora l'incubo di un rafforzamento del fronte euro-scettico e anti-immigrazione polacco-ungherese. Ma i movimenti populisti di destra, dalla Lega al Front National, si sentiranno incoraggiati dal 50% sfiorato da Hofer. Dopo le elezioni parlamentari del 2018, probabilmente anticipate al 2017, se non al prossimo autunno, potremmo assistere alla vera svolta a destra dell'Austria, con l'irresistibile ascesa di Strache alla Cancelleria.

Un sospiro di sollievo per Kern
Sollevato, a seguito dell'insuccesso di Hofer, sarà soprattutto Kern, che potrà avviare il suo tentativo di rendere più efficiente l'apparato politico-amministrativo e l'economia del paese, senza dover temere il fuoco amico dalla presidenza. Van der Bellen, come il predecessore Fischer, aderisce alla visione restrittiva dei poteri del Presidente, oltre a condividere sostanzialmente gli obiettivi del nuovo capo del governo.

Ben più tempestosa sarebbe stata la navigazione in caso di vittoria di Hofer, il quale non aveva fatto mistero dell'intenzione di utilizzare il potere di licenziare il Cancelliere o l'intero governo e imporre elezioni anticipate, previsto dalla Costituzione pre-bellica, ma caduto in desuetudine.

Si era detto pronto a farlo qualora il governo violasse le leggi, aumentasse le imposte, non si opponesse all'ingresso della Turchia nell'Unione europea, o prendesse comunque decisioni “dannose per il Paese”. Il pericolo di uno scivolamento verso l'autoritarismo era dunque reale.

Ma più preoccupante è la già accennata prospettiva di una vittoria elettorale di Strache. Il presidente van der Bellen si troverà di fronte ad un dilemma difficilissimo: al momento non concepisce di poter conferire l'incarico al leader dell'estrema destra, ma sa che non potrebbe rifiutarsi. Può solo sperare in una evoluzione dell'Fpoe in senso moderato, o in un suo riflusso.

Ultima possibilità per rimettersi in carreggiata
La mancata vittoria di Hofer ridà fiato ai partiti tradizionali, li incoraggia a utilizzare al meglio i prossimi mesi, a superare i loro dissensi paralizzanti, affrontare le necessarie riforme; e quindi riconquistare il loro elettorato e sgonfiare la bolla populista. Sono questi i propositi espressi da Kern al momento della sua investitura, senza risparmiare critiche severe a chi ha governato sinora. Ha avvertito che questa è l'ultima opportunità per rimettersi in carreggiata, e che c'è pochissimo tempo: qualche mese.

Chi non crede nella capacità della classe politica di operare questa svolta parla già di “fine della Seconda Repubblica”: non tanto per l'involuzione autoritaria a cui puntava Hofer, comunque soggetta a limiti, ma per lo sganciamento dell'elettorato dall'ancoraggio alle Volksparteien, i partiti storici, portatori ciascuno di una cultura politica. E di conseguenza per la via spianata a campagne elettorali all'americana, basate su slogan, facce fotogeniche e duelli televisivi. Il tutto nell'assenza di veri programmi.

L'elezione di van der Bellen non cancella questa prospettiva, ma forse la allontana nel tempo.

Francesco Bascone è Ambasciatore d’Italia.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3467#sthash.gsuuVIgL.dpuf

Biulorussia: ridurre la dipendenza da Mosca

Bielorussia
Lukashenko a Roma per Bergoglio
Daniele Fattibene
20/05/2016
 più piccolopiù grande
Una prima internazionale. Così si può definire la visita del Presidente bielorusso Lukashenko a Roma. Quella del 20 maggio infatti, è la prima visita del leader in un Paese dell’Unione europea, Ue, dopo la decisione da parte del Consiglio dell’Ue di non prolungare le misure restrittive nei confronti di 170 persone e tre industrie bielorusse (Beltech Export, Beltech Holding e la Spetspribor service).

La revoca è stata favorita sia dal rilascio di tutti i prigionieri politici sia dal fatto che le ultime elezioni presidenziali si siano tenute in assenza di violenze come quelle registrate nel 2010. La visita di Lukashenko non mira però soltanto a lanciare un messaggio di apertura verso i partner europei, ma soprattutto a costruire un potenziale asse Est-Ovest tra Minsk e il Vaticano.

Ridurre la dipendenza da Mosca
Negli ultimi due anni Lukashenko ha lavorato per rafforzare la sua leadership interna, presentandosi come garante della pace e della stabilità in Europa orientale, ospitando tanto gli accordi di Minsk, quanto i gruppi di lavoro del “Gruppo di contatto trilaterale” per il Donbass.

Il rafforzamento della posizione interna è passato anche da una serie di iniziative volte a ridurre la dipendenza da Mosca sia sul piano politico che economico. Lukashenko si è opposto non solo al piano per ospitare una base aerea russa a Bobrujsk, ma ha anche tentato di diversificare il sistema economico del suo Paese troppo legato a quello russo.

Il crollo del prezzo del greggio ha danneggiato le raffinerie nazionali (l’Italia tra l’altro è risultata il maggiore importatore di prodotti petroliferi dalla Bielorussia tra il 2013 e il 2014) mentre il mix di sanzioni Ue e contro-sanzioni russe ha prodotto ingenti perdite. Per questo motivo il Paese sta puntando a diventare un importante hub europeo degli investimenti cinesi (si parla di circa 16 miliardi di dollari in infrastrutture) lungo la nuova “Via della seta”.

In quest’ottica la revoca delle sanzioni dovrebbe inoltre consentire alla Bielorussia di avere accesso agli aiuti europei, migliorare il livello di attrattiva verso gli investitori stranieri e infine ottenere il programma di assistenza da tre miliardi del Fondo Monetario Internazionale, Fmi. È evidente che il tentativo di usare i successi in politica estera serva però a mascherare i problemi interni (il Pil è crollato del 3.9 per cento nel 2015 e il reddito mensile si è quasi dimezzato dal 2013) per evitare il dissenso interno.

Ponte tra Chiese
In realtà molti analisti bielorussi ritengono che il vero obiettivo della visita di Lukashenko a Roma non si troverebbe al Quirinale o a Palazzo Chigi, bensì in Vaticano.

Dopo la visita a Minsk del Segretario di Stato del Vaticano Pietro Parolin nel 2015, le autorità religiose e politiche bielorusse hanno invitato Papa Francesco a recarsi in Bielorussia. Se ciò avvenisse, la visita di Lukashenko si inserirebbe perfettamente nel disegno politico di rafforzamento interno tramite i successi sul piano internazionale.

Sulla scorta dell’incontro storico tra Papa Francesco e il Patriarca della Chiesa Ortodossa russa Kirill, avvenuto a Cuba lo scorso febbraio, il Vaticano potrebbe addirittura diventare un mediatore nei rapporti tra Bruxelles e Minsk.

Del resto già in passato la Santa Sede ha permesso di superare gli attriti tra Minsk e Bruxelles come dimostrato dalla concessione fatta nel 2013 a Anatoly Rubinov - Presidente della Camera Alta del Parlamento bielorusso e all’epoca soggetto alle restrizioni europee - a cui fu concesso il permesso di rappresentare la delegazione bielorussa alla cerimonia di insediamento del nuovo Pontefice.

Rischi di una politica troppo accomodante
La revoca delle sanzioni è un chiaro segnale di cambiamento di strategia da parte dell’Ue. Essa deriva probabilmente dall’insoddisfazione verso gli scarsi risultati prodotti e dall’aver sfavorito la posizione dell’Ue nel Paese a favore invece del Cremlino.

Una posizione troppo accomodante rischia però di non produrre alcun risultato concreto sul piano dei diritti umani e della democrazia bielorussa. Non bisogna dimenticare infatti che il rilascio dei prigionieri politici è avvenuto solo dopo la scadenza utile per registrarsi come candidati alle elezioni parlamentari del prossimo settembre. Inoltre, il report dell’Ufficio per le Istituzioni democratiche e i diritti umani (Odihr) dell’Osce contiene ampie critiche nei confronti del modo in cui si è svolto il voto presidenziale del 2015.

C’è quindi il rischio concreto che l’Ue perda una leva fondamentale e che il regime continui semplicemente con una moderata politica di repressione, lanciando contemporaneamente messaggi di cooperazione per esempio attuando alcune delle raccomandazioni dell’Odihr per modificare la legge elettorale.

L’atteggiamento apparentemente anti-Cremlino di Lukashenko non è inoltre frutto di un desiderio genuino di integrarsi con le strutture europee, quanto piuttosto di un preciso calcolo politico che non garantisce l’indipendenza del Paese dall’ingerenza di Mosca.

Il pragmatismo non dovrebbe portare a un abbassamento del livello di aspettative nei confronti della Bielorussia. L’Ue potrebbe al contrario sfruttare questa finestra di opportunità per aumentare la sua visibilità nel Paese, per esempio attraverso un rafforzamento dei programmi di scambio culturali, ma anche un alleggerimento delle procedure per l’ottenimento del visto da parte dei cittadini bielorussi.

In un’Europa minacciata da sempre nuovi muri, l’apertura delle frontiere potrebbe essere lo strumento più efficace per far sì che l’avvicinamento di Minsk sia duraturo e non solo dettato dal mero calcolo politico del momento.

Daniele Fattibene lavora nel programma Sicurezza e Difesa dello IAI (@danifatti).
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3461#sthash.CVceSdeE.dpuf

lunedì 16 maggio 2016

Ucraina: Criticità ed opportunità in gioco

Crisi ucraina
Ritorno a Minsk, con poche speranze
Alessandro Pandolfi
10/05/2016
 più piccolopiù grande
Il fragile cessate il fuoco tra le forze di Kiev e quelle separatiste del Donbass, sostenute militarmente dalla Russia, è oggetto di attenzione da parte di tutte le grandi potenze interessate al conflitto.

Il pericoloso focolaio di violenze che ha causato l’amputazione della sovranità ucraina e un grave stato di tensione a livello internazionale è stato raffreddato tramite le negoziazioni nel “formato Normandia” e gli accordi di Minsk-2. I 13 punti del processo di pace concordati in Bielorussia sostituiscono i precedenti accordi del settembre 2014, collassati sotto il peso delle continue violazioni e della minaccia di una escalation su larga scala.

Incontro del gruppo di contatto sull’Ucraina
E proprio mentre l’intesa sembrava sul punto di collassare, la Pasqua ortodossa e le festività di maggio hanno interrotto per alcuni giorni le ostilità. Il gruppo di contatto formato da Russia, Ucraina e Osce ha ottenuto una tregua: tra il 1° e il 9 maggio le armi hanno taciuto, alleviando le sofferenze della popolazione civile.

Sia l’Osce che i principali ministri degli esteri europei hanno più volte invitato le parti a prendersi le proprie responsabilità e a fare passi concreti verso il rispetto degli accordi presi che, viziati da interessi contrastanti e ambiguità nell’intesa, si trovano in un vero e proprio limbo.

L’11 maggio si terrà l’incontro nel formato Normandia (Francia, Germania, Russia e Ucraina), anticamera di un nuovo meeting del gruppo di contatto trilaterale di Minsk (Osce, Russia e Ucraina) sull’implementazione dei punti concordati.

L’impasse delle elezioni nelle province orientali
Sul tavolo restano una serie di questioni irrisolte che hanno evidenziato come la precedente intesa non sia andata molto al di là di un congelamento del fronte.

La prima è il tema dell'autonomia delle regioni orientali, di cui si discute da mesi. Con il termine “autonomia”, il Cremlino e i membri delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk intendono sostanzialmente un’ampia federalizzazione che deleghi poteri cruciali, anche in materia di politica estera, con evidenti ricadute concrete.

Kiev immagina invece un decentramento che soddisfi le parti in causa senza sacrificare ulteriormente la propria sovranità.

Il punto è strettamente legato alle elezioni da tenere nelle aree orientali, come da accordi di Minsk. Le autoproclamate repubbliche non vogliono sottostare alla disciplina elettorale ucraina, come voluto da Kiev e previsto dall’intesa.

Il disaccordo discende dal grado del tutto insoddisfacente di “specificità” previsto dalla riforma costituzionale in attesa del voto definitivo della Rada, oltre che dal deplorato scarso coinvolgimento dei rappresentanti di Donetsk e Lugansk.

Questa mancata partecipazione discende dalla volontà di Kiev di trattare solo con i rappresentanti eletti dalle popolazioni orientali e non con elementi legittimati in modo extra-legale o dall’estero.

Le autorità ucraine non intendono tuttavia tenere alcuna elezione locale fino al recupero dei controlli alla frontiera con la Federazione, altro punto concordato tra le parti. Il presidente Petro Poroshenko ha recentemente suggerito di autorizzare una missione armata dell’Osce per vigilare sulle future elezioni, eventualità attualmente al vaglio dell'istituzione internazionale e delle varie cancellerie.

Berlino e Parigi hanno chiesto ripetutamente a Kiev di approvare la legge elettorale prevista dagli accordi. La norma che ne definisce i contenuti, assieme alla riforma costituzionale e alla conseguente legislazione sullo status speciale, costituisce il centro della discordia e delle difficoltà legislative ucraine.

Per tutto febbraio e marzo i ministri degli Esteri francese e tedesco hanno esercitato pressioni per una velocizzazione delle riforme ucraine, anche a costo di compromessi.

Mosca ha sempre insistito sulla necessità di una “federalizzazione” di tutte le regioni e di uno “status speciale” per i territori di Donetsk e Lugansk al fine di conseguire una soluzione del conflitto nella parte orientale dell’Ucraina. La Federazione russa e i suoi referenti sono insoddisfatti del grado di coinvolgimento dei secessionisti nel processo di revisione.

Criticità e opportunità in gioco
La soluzione dello stallo è legata a doppio filo alla volontà del Cremlino, ma anche al deterioramento delle condizioni politiche ed economiche di Kiev, tanto da far parlare qualche commentatore, poco prima del varo del nuovo governo, di un possibile collasso del sistema ucraino, con tutto quanto ne conseguirebbe.

I prossimi incontri segneranno anche il vero e proprio debutto del governo Groysman, votato dalla Rada il 14 aprile dopo le dimissioni di Arseniy Yatsenyuk e del suo governo ormai di minoranza. Pur mantenendo invariato l’orientamento politico, il nuovo esecutivo ha posto tra le priorità il decentramento e le riforme.

Una nota di speranza arriva dalla corte costituzionale che a metà marzo ha sbloccato la possibilità di velocizzare gli emendamenti costituzionali, rendendo potenzialmente più rapido il processo di riforma. Questo richiede tuttavia un’alta maggioranza nella seconda lettura.

Tuttavia l’impressione è che la soluzione delle questioni procedurali non condurrà alla fine del conflitto. Lo dimostra il livello eccezionalmente alto di combattimenti verificatosi tra febbraio e marzo e la distanza che ancora divide le parti.

La querelle sulle elezioni è infatti una mera conseguenza dell’insoddisfazione orientale per la riforma costituzionale, che non attribuirebbe il potere di condizionare le scelte internazionali dell'Ucraina, identificato come vero obiettivo e “linea rossa” di Mosca.

Al momento pare improbabile una ripresa delle ostilità su ampia scala o il tandem elezioni-annessione, con quest’ultima per nulla scontata. Più probabile un ennesimo “conflitto congelato”, che potrebbe risultare la soluzione migliore per la Federazione, garantendo una presenza nell’area ad un costo politico ed economico relativamente basso.

Si è ancora distanti da una piena soluzione politica. Nonostante sia possibile immaginare un’imminente accelerazione del processo di riforma, gli incontri di Minsk saranno difficilmente un punto di svolta definitivo, a meno di inattese concessioni tra le parti.

L’entrata in vigore del cessate il fuoco ha ridotto la magnitudine del conflitto ma la mancanza di volontà e di capacità concrete rende difficoltosa una duratura soluzione del rebus ucraino.

Alessandro Pandolfi è laureato in Relazioni Internazionali presso l’Università degli Studi di Milano.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3445#sthash.2cwcUO3I.dpuf

lunedì 9 maggio 2016

Russia Attacco terroristico a Stavropol





RUSSIA
 
La mattina dell’11 Aprile, tre terroristi hanno tentato di far esplodere le proprie cinture esplosive nei pressi della stazione di polizia di Novoselske, centro nella regione di Stavropol (Russia Meridionale). Tuttavia, soltanto uno di loro è riuscito nel proprio intento, mentre gli altri due sono stati uccisi dalla polizia. In ogni caso, l’attentato non ha fatto vittime né tra i poliziotti né tra i civili. Nelle ore successive all’attacco, le Forze di polizia ed i Servizi di Sicurezza hanno avviato una massiccia operazione anti-terrorismo (piano Krepost) consistente nell’evacuazione di asili nido, scuole ed ospedali. Nel recente passato (dicembre 2013), la regione di Stavropol era stata già colpita da un altro attentato, quando un autobomba aveva colpito un ufficio della polizia stradale nella cittadina di Pyatigorsk, uccidendo tre persone.
Anche se, al momento, non è stata effettuata alcuna rivendicazione, i gruppi jihadisti maggiormente indiziati sono l’Imarat Kavkaz (IK, Emirato del Caucaso) e il Wilayah al-Qawqaz (WQ), gruppo affiliato allo Stato Islamico (IS o Daesh). Mentre il primo gruppo, attivo sotto altri nomi e sigle sin dalla Seconda Guerra Cecena (1998-2002), rappresenta la più antica formazione jihadista presente nella Federazione Russa, il secondo è nato nel giugno del 2015 attorno al nucleo dei foreign fighters ceceni e daghestani ritornati in patria dopo l’esperienza nella guerra civile siriana e l’arruolamento in Daesh.
Nel caso l’attentato fosse rivendicato da IK, questo manifesterebbe la volontà del gruppo di sottolineare la perduranza della propria azione nonché la sua centralità nel panorama insurrezionale e terroristico russo. Infatti, grazie all’efficacia della strategia anti-terrorismo del Cremlino, negli ultimi anni IK ha sensibilmente ridimensionato l’incisività delle proprie azioni.
Viceversa, nel caso in cui l’azione di Novoselske  fosse rivendicata dal Wilayat-al Qawqaz, il gruppo rimarcherebbe la propria continua ascesa e la propria crescita di importanza all’interno della galassia jihadista del Caucaso russo. 

Londra: verso nuovi orizzonti.

Regno Unito
Khan, un musulmano per scongiurare la Brexit
Gabriele Rosana
07/05/2016
 più piccolopiù grande
L’ultimo appuntamento elettorale su scala pressoché nazionale, quasi una prova generale prima del referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea (Ue), ha consegnato a Londra il suo primo sindaco musulmano.

Figlio di un ex autista pachistano, il 45enne Sadiq Khan, avvocato specializzato in diritti umani e già sottosegretario con Gordon Brown e ministro ombra della Giustizia, ha sconfitto con più di dieci punti percentuali il candidato del partito conservatore Zac Goldsmith, rampollo di una famiglia di miliardari ebrei dall’identikit piuttosto simile a quello del sindaco uscente.

Vita privata turbolenta, attenzione ai temi ecologisti, studi a Eton e favore per l’uscita del Regno Unito dall’Ue, Goldsmith sarebbe stato il perfetto successore del vulcanico Boris Johnson che dopo due mandati a Londra ha optato per un seggio ai Comuni, da cui costruire l’alternativa interna alla premiership del collega di partito David Cameron.

Khan è un musulmano praticante, il primo eletto al vertice di una capitale europea, in una città cosmopolita in cui i fedeli all’Islam sono circa un milione e in cui il laburista ha invitato i suoi volontari a far campagna “in strada, porta per porta, dalle sinagoghe alle moschee, dalle chiese ai gurdwara”.

Sinora, il più noto rappresentante della categoria era Ahmed Aboutaleb, primo cittadino di Rotterdam, di origine marocchina. Da oggi, Sadiq sarà il politico musulmano più potente d’Europa.

The New Old Labour
La vittoria di Sadiq Khan ha dato una scossa alla sinistra di Sua Maestà. Il nuovo vecchio Labour - come altri fronti progressisti d’Europa - è percorso da una faglia interna di difficile composizione, fra l’ala massimalista rappresentata da Jeremy Corbyn e i vecchi fedeli blairiani: una tensione in cui Khan si mantiene equidistante, pur rassicurando da una parte i finanzieri della City (strenuamente contrari alla Brexit e su cui il messaggio di opposto orientamento del Tory eterodosso Goldsmith avrà fatto poca presa) e dall’altra mettendo fra le priorità della sua agenda case e trasporti.

Il caso Londra è, tuttavia, un’isola felice e un test circoscritto per il nuovo-vecchio corso laburista, perché la stessa affermazione di Khan non è stata replicata dai compagni di partito altrove nel Regno (in ballo c’era anche il rinnovo dei Parlamenti di Scozia, Galles e Irlanda del Nord e dei consigli di 124 comuni).

Elezioni in Scozia e Galles
Se in Inghilterra il Labour tiene botta - perde consiglieri, ma salva i comuni chiave - in Scozia subisce un’ulteriore battuta d’arresto, finendo relegato al terzo posto, sorpassato dai Conservatori del premier Cameron che mai al di là del Vallo di Adriano avevano goduto di buona fama (saranno forse echi del David pro-Ue?).

Un tempo granaio di preferenze per la sinistra che qui - e nelle miniere - registrava numeri record, il nord del Paese ha visto un progressivo e inesorabile travaso di voti verso i nazionalisti (ma europeisti ferventi) dello Scottish National Party, Snp, la formazione guidata da Nicola Sturgeon.

L’Snp ha perso terreno e seggi (da 63 a 69) e anche la maggioranza assoluta dell’assemblea monocamerale di Edimburgo (i separatisti dovranno cercare partner di coalizione: una mossa che renderebbe più difficile la richiesta di un nuovo referendum sull’indipendenza), mentre i Tories raddoppiano la loro pattuglia.

I laburisti hanno mantenuto il vantaggio relativo in Galles, pur perdendo qualcosa e vedendo la crescita - anche qui - dei nazionalisti del Plaid Cymru e l’inaspettata ascesa (da 0 a 7 seggi) degli euro-populisti dell’Ukip che consolidano il ruolo di terza forza nel paese e registrano il più alto numero di voti di sempre persino nella difficile arena londinese.

Evitata una pesante sconfitta che era nell’aria, la sorte non arride comunque ai progressisti, che il 23 giugno sono schierati per dire sì alla permanenza nell’Ue.

Sinistra antisemita
Non c’è solo la perdita di posizioni nelle urne dell’ultimo voto pre-Brexit a rimestare i malumori in casa laburista, ma - e forse ancora più - il turbolento clima della vigilia con le sferzanti accuse di antisemitismo all’indirizzo di esponenti chiave di quel partito che si accingeva a portare il primo islamico a governare sul Tamigi.

Sinora alleato di Corbyn nel rinsaldare la svolta a sinistra dei laburisti, l’ex primo cittadino di Londra Ken Livingstone è stato nei giorni scorsi sospeso dal partito dopo alcune controverse dichiarazioni su Hitler, definito “un sostenitore del sionismo, prima di diventar matto e uccidere sei milioni di ebrei”.

Con il suo commento, Ken ‘il rosso’ aveva tentato di prendere le difese della collega di partito e parlamentare Naz Shah, anch’ella sospesa dal Labour dopo la riemersione dal passato di post Facebook in cui suggeriva il trasferimento di Israele negli Stati Uniti come soluzione al conflitto mediorientale, seppur con mosse tardive che avevano posto anche Corbyn nell’occhio del ciclone, catalizzando le critiche del premier Cameron e l’invito dell’ambasciatore israeliano a Londra a visitare lo stato ebraico.

Maldestri scivoloni, nelle ore in cui gli strateghi della campagna elettorale di Goldsmith suggerivano di instillare nell’elettorato il dubbio che in passato Khan avesse avuto contatti con frange estremiste.

A meno di 50 giorni dal prossimo appuntamento elettorale, la campagna elettorale britannica è a tutto campo. Per ora, né Cameron né Corbyn hanno perso davvero.

Gabriele Rosana è giornalista pubblicista, assistente alla comunicazione dello IAI (Twitter: @GabRosana).
  - See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3440#sthash.KIBmBnUq.dpuf

lunedì 2 maggio 2016

Spagna: nuove elezioni

Spagna
Fumata nera, Madrid torna alle urne
Marco Calamai
01/05/2016
 più piccolo più grande
La notizia non ha certo sorpreso gli spagnoli: fin dall’inizio è stato chiaro che i quattro protagonisti (Partito popolare, Partito socialista, Podemos e Ciudadanos) del nuovo quadro politico espresso dalle elezioni del 20 dicembre 2015, non avrebbero trovato l’accordo per un nuovo governo.

Da qui la decisione di nuove elezioni, il prossimo 26 giugno. Come si spiega questa situazione, senza precedenti nella storia della democrazia antifranchista, fino a ieri caratterizzata da uno stabile bipartitismo?

Ciudadanos e Podemos alla ribalta
Dal voto dello scorso dicembre sono emersi due potenziali blocchi, entrambi privi della maggioranza di seggi necessaria per governare. Il primo è quello di destra, rappresentato dal Pp (Partito popolare) e da Ciudadanos, la nuova formazione di orientamento liberale che contesta i tanti scandali che hanno segnato il governo conservatore di Mariano Rajoy.

L’altro blocco è quello di sinistra, dominato dal Psoe (lo storico partito socialista) e da Podemos, il nuovo partito radicale, ma non antisistema, che in meno di due anni si è imposto nello scenario progressista tradizionalmente occupato in modo stabile dai socialisti.

Alle urne si è registrato uno smottamento corposo del voto che ha colpito sia i popolari sia i socialisti: milioni di elettori hanno abbandonato i due partiti maggiori (Pp e Psoe) e hanno votato le nuove formazioni (Podemos e Ciudadanos) nate dalla crisi economica e dalla questione morale.

Il Pp è sceso dai quasi 11 milioni di voti del 2011 (44,6%) ai poco più di 7 milioni del 2015 (28,7%), un risultato non compensato dall’indubbio successo di Ciudadanos (3,5 milioni di voti).

A sinistra, il partito socialista ha preso 1,5 milioni di elettori in meno rispetto al 2011, il risultato peggiore dell’epoca democratica. Podemos ha invece portato a casa più di 5 milioni di voti.

Destra e sinistra arenati
I tentativi di formare un governo hanno messo in evidenza le profonde divisioni interne ai due blocchi. Rajoy è contestato non solo dalla sinistra, ma anche da Ciudadanos, potenziale alleato che paventa la delusione dei propri elettori nei riguardi di una eventuale alleanza con l’attuale capo del governo, per il momento deciso in modo ostinato a non mollare la guida del partito.

La sinistra è lacerata dall’intransigenza di Podemos (tentato fin dall’inizio dalla ipotesi di nuove elezioni nella speranza di un “sorpasso” dei socialisti) e dalle divisioni interne dello stesso Psoe (diversi notabili storici e locali contrari ad allearsi con Podemos e semmai orientati ad un accordo Pp-Psoe-Ciudadanos).

Le prospettive sono ora più che mai incerte. I sondaggi elettorali, per il momento, ritengono assai probabile una sostanziale riconferma dei risultati del 20 dicembre scorso. La campagna si prospetta incandescente.

È in gioco il destino politico di Rajoy (che spera nel piccolo recupero che gli danno i sondaggi) e quello di Sanchez che rischia di perdere voti sia a destra (Ciudadanos) sia a sinistra (Podemos). Prospettive non facili anche per i due partiti del fronte innovatore. Ciudadanos teme il “voto utile” che potrebbe favorire il Pp, Podemos teme a sua volta che una parte dei suoi votanti si astenga in risposta alla intransigenza del partito durante le trattative.

Populismo antisistema, (per ora) no grazie
A ben guardare la destra è, per il momento, meno divisa della sinistra. Ciudadanos non è gradito a Rajoy, ma piace a molti militanti del Pp, coscienti dell’urgenza di un profondo rinnovamento di un partito logorato da troppi scandali. Una convergenza tra le due forze, escludendo l’attuale primo ministro, è una ipotesi probabile.

A sinistra, invece, la prospettiva di un ulteriore cedimento elettorale dei socialisti rende improbabile, in questa fase, un avvicinamento a Podemos. La crisi del Psoe potrebbe aggravarsi drammaticamente nei prossimi mesi. Come altri partiti socialisti il Psoe appare incapace di offrire risposte convincenti ai milioni di cittadini che hanno pagato in prima persona le misure di austerità di marca europea. Si spiega così il suo declino e la sua profonda incertezza strategica.

La democrazia spagnola appare oggi, senza dubbio, meno solida di qualche ano fa. Si deve riconoscere, tuttavia, che Podemos e Ciudadanos non sembrano per il momento tentati dalle campane del populismo antisistema. La crisi dei partiti tradizionali non ha prodotto in Spagna la deriva xenofoba di altri paesi occidentali. Già, ma fino a quando?

Marco Calamai è giornalista e scrittore.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3433#sthash.IIdsQXgA.dpuf