Conferimento Emblema Araldico a Mario Ceccaroni. Recanati 16 gennaio 2025.
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5 settimane fa
Blog di sviluppo per l'approfondimento della Geografia Politica ed Economica attraverso immagini, cartine, grafici e note. Atlante Geografico Statistico Capacità dello Stato. Parametrazione a 100 riferito agli Stati Europei. Spazio esterno del CESVAM - Istituto del Nastro Azzurro. (info:centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org
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![]() Se a ciò si aggiungono una domanda di gas praticamente piatta in Europa - primo mercato di esportazione per Mosca - e la crescente competizione sui mercati globali con l’entrata di nuovi protagonisti nel mercato del gas naturale liquefatto, ecco servito uno dei periodi più complessi e incerti della storia recente della Russia. Nonostante tali difficoltà, o forse proprio alla luce di queste, nelle ultime settimane il Cremlino è riuscito a mettere a segno una serie di iniziative internazionali, dall’accordo Opec all’ingresso nel settore estrattivo egiziano, in grado di riportare la Russia prepotentemente al centro dello scacchiere energetico globale. Prezzo del petrolio in aumento Dal 2008, i membri dell’Opec non riuscivano a raggiungere un accordo per il taglio alla loro produzione complessiva, e addirittura dal 2001 il Cartello non trovava una linea comune con gli altri Paesi produttori. Negli ultimi mesi, la diplomazia di Mosca ha lavorato intensamente per uscire dal tunnel dei prezzi bassi, presentandosi da un lato come partner credibile impegnato a limitare la propria produzione nazionale e dall’altro come broker di un allineamento - tutt’altro che scontato - tra Arabia Saudita e Iran, in crescente competizione per questioni di leadership regionale. L’aver inoltre portato al tavolo paesi non-Opec come Azerbaijan, Bahrain, Bolivia, Brunei, Guinea equatoriale, Kazakistan, Malesia, Messico, Oman, Sudan e Sud Sudan rappresenta la ciliegina sulla torta preparata dal Cremlino. Anche se i tagli pattuiti durante il meeting di Vienna - 1.8 milioni di barili al giorno, circa il 2% della produzione globale - hanno condotto a un aumento del prezzo del greggio, ora sopra i 50 dollari al barile, questa crescita non è stata poi così significativa e sostenuta come ci si poteva aspettare. In futuro, molto dipenderà dall’effettiva capacità del gruppo dei produttori di coordinarsi (e rassicurarsi) attraverso meccanismi informali e rapporti di forza estremamente delicati. Quanto potrà durare tutto questo rimane quindi un grande punto di domanda. Resta tuttavia la percezione che la Russia potrà giocare un ruolo chiave in questa partita, presentandosi come ‘indispensable nation’ di fronte a un’Opec sempre più consapevole della sua incapacità/inadeguatezza a influenzare - da sola e indipendentemente - il funzionamento del mercato petrolifero. Mosca entra nel Mediterraneo orientale A distanza di poche settimane dall’accordo con l’Opec, Mosca ha assestato un importante colpo, questa volta nel settore del gas naturale. Attraverso la compagnia Rosneft, il Cremlino ha sancito il proprio ingresso nel Mediterraneo orientale, dal 2009 terra di conquista di compagnie statunitensi e in seguito europee. Rosneft, di certo non un attore di primo piano nel settore del gas, ha infatti acquisito da Eni il 30% della concessione Shourouk, all’interno della quale, lo scorso anno, la compagnia italiana ha scoperto il mega giacimento Zohr. L’accordo è particolarmente rilevante perché negli ultimi anni il Mediterraneo orientale è emerso come una delle principali direttrici della strategia di diversificazione degli approvvigionamenti dell’Unione europea, Ue, volta soprattutto a ridurre la dipendenza dal gas di Mosca. Tuttavia, sebbene sia chiaro che la mossa permette alla Russia di entrare in gioco in una regione chiave per la sicurezza energetica europea, non vanno comunque sottovalutate la rivalità industriale tra Rosneft e Gazprom (attuale monopolista dell’export di gas russo in Europa) e le possibili implicazioni che questa potrebbe avere sull’unità delle strategie energetiche di Mosca verso l’Ue. Quello che ormai è certo, ad ogni modo, è che il Cremlino ha ben più di un piede nel Mediterraneo orientale: partendo dalla Grecia, e passando per Turchia, Cipro, e Israele per arrivare fino all’Egitto del presidente Abdel Fattah al-Sisi (e addirittura alla disastrata Siria), l’allineamento astrale regionale sembra essere stato disegnato appositamente per gli interessi strategici di Putin. Tillerson, altra pedina della collaborazione Usa-Russia La ciliegina sulla torta, per la leadership di Mosca, potrebbe arrivare in seguito all’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. Il tycoon non ha infatti mai nascosto il suo obiettivo di una normalizzazione delle tensioni con la Russia. La nomina di Rex Tillerson - ex Amministratore Delegato del gigante petrolifero Exxon Mobil - potrebbe essere strumentale a un riavvicinamento tra le parti. La potenziale convergenza tra Usa e Russia sul piano energetico potrebbe ad esempio sancire una rimozione - progressiva e/o parziale - delle sanzioni, magari proprio quelle sulle attività del settore petrolifero nell’Artico, dove la compagnia del futuro Segretario di Stato Usa ha forti interessi industriali in collaborazione con i russi. Anche l’approccio cooperativo di Mosca con l’Opec potrebbe però essere nell’interesse di Washington che grazie a prezzi del greggio in crescita avrebbe la possibilità di vedere le sue compagnie non convenzionali riprendere a produrre, evitando la (parziale) bancarotta di un settore messo duramente alla prova dalla guerra dei prezzi in atto dal Cartello. Se a ciò si aggiunge il potenziale disimpegno dell’amministrazione Trump nel Mediterraneo, nuova frontiera delle politiche energetiche di Mosca, il cerchio è presto chiuso. Nicolò Sartori è responsabile di ricerca e coordinatore del Programma Energia dello IAI. | ||||||||
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![]() La partita dell’integrazione europea si gioca ormai a livello politico mentre l’istituzionalizzazione del processo garantita dal lavoro della Commissione europea ne garantisce solo la prosecuzione tecnica nel medio periodo. La preoccupazione principale è che il dossier allargamento possa finire in fondo all’elenco delle priorità politiche europee, monopolizzate dai negoziati per l’uscita di Londra e dalla gestione di pressanti questioni sia interne (per il bilancio e la crisi della solidarietà tra stati membri) che esterne (la situazione in Medio Oriente e i rapporti con Turchia e Russia, fattori ai quali si aggiunge la nuova stagione politica negli Usa). Inoltre, l'uscita del Regno Unito dall’Ue mette in discussione il potenziale di attrazione, e quindi di trasformazione, che l'Unione ha nei confronti di Paesi in cui tanto i governi che le opinioni pubbliche sono ansiose di benefici tangibili nel breve periodo e soggetti all’influenza di altri attori internazionali, tra cui Russia e Turchia. A Trieste i protagonisti del processo di Berlino Poiché già dall'ingresso della Croazia nel 2013 l'allargamento scontava una sostanziale perdita di slancio, in coincidenza con l’inizio delle commemorazioni per il centenario della Grande Guerra, la Germania ha ideato per il sud-est Europa il cosiddetto “Processo di Berlino” che simbolicamente dovrebbe concludersi nel 2018. La cancelliera tedesca Angela Merkel, sostenuta da Austria, Francia e successivamente dall’Italia, ha riunito i leader dei 6 Paesi dei Balcani occidentali prima a Berlino e poi a Vienna e Parigi per incoraggiare la cooperazione intergovernativa attorno ai temi dello sviluppo economico, del rafforzamento delle reti di trasporti, di energia e gas, e della cooperazione regionale, tra cui quella giovanile. Il prossimo luglio 2017, l'incontro dei sei Paesi membri dell'Ue che sostengono il processo (Germania, Austria, Francia, Croazia, Slovenia e Italia), dei Balcani occidentali e della Commissione Europea si terrà a Trieste. Il processo di Berlino non è un'iniziativa comunitaria, ma non è in contraddizione con le politiche Ue adottate nella regione: la Commissione ha infatti dimostrato fin da subito il proprio appoggio all'iniziativa e ne ha ribadito l'importanza anche nei Progress Report sullo stato di avanzamento dei negoziati di adesione, appena pubblicati. Sino ad ora, il Processo di Berlino ha contribuito a far tornare sotto i riflettori, almeno in occasione dei summit, il tema dell’integrazione europea dei Balcani e l’importanza della cooperazione regionale. In questo senso l'insolito asse Belgrado-Tirana, con lo scambio di visite tra il premier serbo Vučić e quello albanese Rama, sono un segnale incoraggiante, in mezzo ai tanti negativi. A Vienna sono state fatte promesse solenni per la soluzione delle molte dispute bilaterali che ancora segnano la regione. Le relazioni Serbia-Kosovo costituiscono il nodo più difficile da sciogliere, ma non va sottovalutato il problema degli ostacoli frapposti da stati membri a Paesi candidati, in primis l’ostracismo della Grecia verso la Macedonia. Berlino protagonista dell’allargamento nei Balcani Oltre a Berlino serve però anche tanta Bruxelles. Le iniziative politico-diplomatiche, infatti, sono utili se si affiancano in modo coerente al lavoro di lungo periodo sul terreno da parte delle istituzioni. Nei Balcani occidentali i cambiamenti strutturali necessari per diventare stati membri richiedono tempo e determinazione, poiché non si tratta solo di trasposizione normativa dell’acquis comunitario. Vi sono culture politiche e istituzioni tutte da consolidare nel percorso di implementazione delle riforme in Paesi ancora inclini a derive autoritarie. Nonostante si tratti dell’ennesima iniziativa diplomatica nei loro confronti, l’effettiva capacità di attrazione del Processo di Berlino è sostenuta dal protagonismo della Germania, percepita dai Balcani occidentali come il vero motore europeo. Ma Berlino fa riferimento ai fondi europei per realizzare le iniziative previste ovvero i 10 progetti infrastrutturali identificati come prioritari. E i Balcani occidentali devono rendersi conto che nonostante la “fatica di allargamento” possono ancora beneficiare di notevoli risorse comunitarie, diversamente dal resto dei Paesi terzi inclusi quelli del resto dell’Europa orientale interessati dalle politiche di vicinato. Il ruolo della società civile nel processo di allargamento Infine, negli ultimi anni i Paesi del Sud Est Europa hanno corso il serio rischio di riacquistare centralità nella politica europea solo per ragioni di sicurezza su questioni quali la lotta al terrorismo internazionale o la cosiddetta Rotta balcanica. Tuttavia, se i Balcani tornano ad essere trattati come la periferia instabile da gestire con l'approccio della politica estera tradizionale siamo di fronte alla fine del processo di allargamento. I Balcani occidentali completeranno il loro consolidamento democratico se vengono considerati a tutti gli effetti futuri Paesi membri da sostenere nel percorso di europeizzazione, tenendo dritta la barra dei principi fondamentali. Naturalmente, questo percorso non può prescindere dal coinvolgimento convinto e attivo delle società civili e in senso lato dei portatori di interesse nelle società della regione. E al Processo di Berlino va dato atto di aver riaffermato la necessità del loro coinvolgimento attivo anche nei processi politici di alto profilo. Nell’attuale quadro di incertezza rispetto agli sviluppi futuri dell’allargamento europeo il processo di europeizzazione guidato dalla Commissione costituisce la sola opportunità di trasformare i Paesi dell’area in democrazie funzionanti. È quindi di fondamentale importanza identificare quali siano gli attori locali che possano impegnarsi attivamente affinché l’implementazione delle riforme non resti sulla carta. Luisa Chiodi dirige OBC Transeuropa dal 2006. Dal 2003 al 2008 è stata docente a contratto di Storia e istituzioni dell'Europa orientale presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università di Bologna e ha insegnato in numerosi corsi universitari in Italia e all'estero (Twitter: @luisa_chiodi). Marzia Bona è ricercatrice per OBC Transeuropa dal 2015. Dal 2010 al 2013 ha trascorso un periodo di ricerca e lavoro in Bosnia Erzegovina. Ha lavorato come tutor accademico nel master europeo in Democrazia e diritti umani nel sud-est Europa, con sede a Sarajevo. Si interessa di diritti umani, studi di genere e politiche culturali nei Balcani (Twitter: @marziabona). | ||||||||
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![]() Capo del governo firmatario del Trattato dell’Unione europea, Ue, di Lisbona nel 2007 e dell’accordo per il rientro della Francia nella struttura militare della Nato nel 2009, Fillon non è stato, durante il suo quinquennio da primo ministro (2007-2012), un protagonista di spicco della politica internazionale francese, accentrata nelle mani del presidente Nicolas Sarkozy che lo ha di fatto emarginato. I suoi orientamenti in materia di politica non sono quindi molto conosciuti, ma gioca a suo favore il fatto di non essere stato direttamente coinvolto in eventi intercorsi sotto Sarkozy e ampiamente dibattuti, quale l’intervento francese in Libia. L’ispirazione gollista di Fillon Eletto in maniera schiacciante alle primarie di destra, Fillon incarna i principi di politica internazionale di ispirazione gollista, a cui tutti i presidenti della quinta Repubblica hanno fatto riferimento, sebbene con sfumature differenti. Tradizionalmente, tre sono gli elementi portanti della politica estera francese. Il primo è l’autonomia strategica: la sovranità nazionale e la libertà decisionale nel compiere delle scelte di politica, interna ed estera, sono viste come condizioni necessarie per garantire e rafforzare il ruolo della Francia nel mondo. A questo aspetto si collega l’utilizzo dello strumento della dissuasione nucleare per essere al pari delle grandi potenze. Ma la Francia, da sola, non disporrebbe dei mezzi per portare avanti questo approccio. Di qui il terzo elemento, ossia la costruzione di un’“Europa delle nazioni”, intesa come forum intergovernativo che rispetti le sovranità nazionali. Dialogo con la Russia Favorevole al dialogo con la Russia, Fillon - già accusato di aver adottato un approccio morbido nei confronti di Vladimir Putin - il candidato repubblicano ha un atteggiamento realista nei confronti di Mosca. Nella sua visione, essa è un partner strategico con cui dialogare per la soluzione di questioni internazionali come quella siriana e la lotta al terrorismo. Questo atteggiamento segue i rapporti già cordiali instaurati durante i cinque anni da primo ministro, stesso ruolo ricoperto da Putin nello stesso periodo. Sotto questo profilo, Fillon sembra concordare non solo con la visione del neopresidente statunitense Donald Trump, ma anche con quella di alcuni Paesi europei, tra cui l’Italia, fautori della riapertura del canale del dialogo con la Russia. Proprio sulla Siria, Fillon non ha esitato a prendere le distanze dalla posizione di Hollande e Obama, in particolare dall’enfasi da loro posta sul rovesciamento di Bashar al-Assad. Ciononostante, come per Trump, l’approccio di apertura di Fillon deve essere considerato con la giusta prudenza, distinguendo tra le dichiarazioni fatte in campagna elettorale e la loro traduzione in fatti concreti. Il no di Fillon al trattato costituzionale dell’Ue Fillon è un fautore dell’ “Europa delle nazioni”, ossia un’Ue politica, realista ed efficiente, che sappia convogliare l’adesione dei popoli e delle nazioni, rispettando al contempo le sovranità nazionali. Una linea non nuova nella politica estera della Francia della quinta Repubblica, ma che assume un rinnovato impeto alla luce della Brexit e della mancata realizzazione dell’unione politica. In piena coerenza con questo approccio, e in linea con una concezione sovranista della Francia, Fillon ha votato no al referendum del 2005 sul trattato costituzionale dell’Ue, sostenendo che non esisteva un’unione politica tale da avere un inquadramento giuridico di rango costituzionale e per le conseguenze che questo avrebbe comportato per la sovranità nazionale. Nel suo programma politico, il candidato repubblicano ha tracciato alcuni assi prioritari dell’azione francese nell’Ue: innanzitutto, la sicurezza dei cittadini con delle frontiere efficaci e una difesa autonoma. Seguendo il leitmotiv dell’indipendenza dagli Stati Uniti per le capacità di difesa, la Francia è sempre stata a favore di una difesa autonoma ed efficace a livello europeo, esortando i Paesi membri dell’Ue a maggiori sforzi militari e finanziari. Al contempo, secondo Fillon è anormale che la Francia prenda in carico tutti gli oneri, finanziari e militari, per mettere in sicurezza la regione del Sahel a fronte del terrorismo islamico. Inoltre, occorre progredire nella cooperazione industriale nel campo della difesa sia per lo sviluppo di un programma militare, sia per un piano di acquisto di mezzi militari europei. Sul fronte economico, oltre a proporre l’euro come moneta di riserva al pari del dollaro americano, Fillon intende promuovere una politica commerciale volta a difendere gli interessi nazionali. Sebbene Fillon rivendichi un’“Europa delle nazioni”, soprattutto alla luce della Brexit e dell’esigenza interna della Francia di rispondere a sfide complesse come la minaccia terroristica, la politica estera che propone per l’Eliseo è in linea di continuità con quella condotta da tutti i presidenti della quinta Repubblica. Più vicino alla prudenza di Chirac che all’interventismo di Sarkozy e Hollande, Fillon, pragmatico e moderato quale è, potrebbe essere il naturale prosecutore della politica estera francese che, da De Gaulle fino a Hollande, non è mai venuta meno ai suoi principi tradizionali. Francesca Bitondo è assistente alla ricerca nel Programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter: @frabitondo). |