Europa

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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

martedì 29 settembre 2015

Grecia: i risultati delle consultazioni generali

Elezioni
Grecia: vittoria Syriza e trionfo compromesso
Eleonora Poli
22/09/2015
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Se i greci si aspettavano una vittoria elettorale di Syriza, il partito di sinistra radicale guidato da Alexis Tsipras, certamente nessuno ad Atene aveva previsto un tale margine.

Secondo i sondaggi, Syriza avrebbe dovuto trovarsi quasi a parità con Nuova Democrazia, la formazione di centro-destra. Invece, a otto mesi dalle precedenti elezioni, il partito di Tsypras si è nettamente imposto con il 35,5% dei suffragi.

Il voto ha decretato una netta sconfitta per Nuova Democrazia che, con il 28% delle preferenze e 75 seggi, resta il secondo partito. Terzo il gruppo radicale di estrema destra Alba Dorata, che ha ottenuto l’8% dei suffragi, 1,7 punti in più rispetto a gennaio.

Nonostante la vittoria inattesa nelle sue dimensioni, Syriza dovrà comunque accettare per governare diversi compromessi, sia sul piano politico che sul piano economico.

La coalizione con i nazionalisti e l’opportunismo politico
Dal punto di vista politico, sebbene il sistema elettorale ellenico preveda un bonus di 50 seggi al partito vincente, Syriza ha ottenuto solo 145 dei 300 seggi alla Camera, 4 in meno rispetto a gennaio. Per potere governare, il partito deve nuovamente coalizzarsi con Anel che, con il 3,7% delle preferenze, ha ottenuto 10 seggi.

L’alleanza si basa più su una convenienza politica che su posizioni affini. Anel è infatti un partito conservatore e nazionalista ma, come Syriza, è fortemente contrario a tagli della spesa pubblica e a politiche economiche neo-liberali.

Ciò nonostante, durante la precedente legislatura, dopo aver esaurito ogni opzione negoziale, entrambi i partiti si sono di fatto dimostrati favorevoli al compromesso con l’Unione europea e i creditori internazionali.

E fu proprio a causa dell’accettazione del terzo piano di salvataggio europeo del valore di 86 miliardi di euro, sostenuto da tutti i 13 membri di Anel e da 113 su 149 parlamentari di Syriza, oltre che dall’opposizione di centro-destra, che ad agosto il premier Tsipras, dopo aver tentato un rimpasto, sciolse il governo.

I risultati delle elezioni anticipate non permettono di prevedere cambiamenti strategici sul fronte europeo.

Infatti, per fare in modo che la Banca centrale europea (Bce) immetta denaro nell’economia greca, acquistando bond e ricapitalizzando le banche, il governo dovrà soddisfare le aspettative dell’Eurogruppo e perseguire proprio quelle politiche di austerità che mal si conciliano con il programma politico di entrambi i partiti e con la volontà espressa dal 60% dei cittadini greci nel referendum di luglio.

Il voto di per sé non tira fuori la Grecia dalla recessione
Il piano di Syriza è quello di realizzare una strategia di trasformazione a lungo termine, che preveda il progressivo rinegoziato degli accordi con Bruxelles.

Tsipras crede infatti che sia necessario mettere in atto alcune delle misure imposte, ricostruendo così la fiducia dei creditori e preparando il terreno per chiedere una riduzione del debito e successivamente abbandonare le politiche di austerità.

Nel frattempo, il governo dovrà però fare fronte alla recessione dell’economia greca, che dal 2009 ha subito una contrazione del 29%.

Mentre il livello di disoccupazione rimane al 26,5%, contro il 10,2% della media europea, degli 86 miliardi di euro di aiuti alla Grecia solo 10 potranno essere investiti nel rilancio dell’economia. Infatti,il 53% degli aiuti sarà devoluto al saldo o al rifinanziamento del debito pregresso, mentre il restante 30% servirà a ricapitalizzare le banche.

Allo stesso tempo, Tsipras deve in tempi ristretti approvare riforme per ridurre la spesa pubblica e privatizzare parte delle attività gestite dallo stato.

A ottobre ci sarà infatti un esame dei progressi fatti dal Paese e, sebbene il presidente dell’eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem si sia detto pronto a lavorare a stretto contatto con il nuovo governo, è difficile prevedere un allentamento delle politiche di austerità.

In conclusione, sembra che le elezioni in Grecia abbiano creato molto rumore per nulla. Il governo ha forse acquisito maggiore legittimità e maggiore coesione: i dissidenti da sinistra usciti da Syriza non sono rientrati in Parlamento, così che c’è la stabilità politica necessaria a rassicurare i creditori.

Ma le politiche economiche perseguibili non sembrano potersi discostare da quelle concordate con l’Eurogruppo. Mentre la Grecia si rassegna all’austerità, la rivoluzione sociale ed economica promessa da Tsipras appare sempre più vuota di contenuto.

Eleonora Poli è ricercatrice dello IAI.
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mercoledì 23 settembre 2015

Allargamento UE: le sfide dell'Oriente

Immigrazione e terrorismo
Ue: sfide allargamento ai Balcani occidentali
Andrea Frontini
09/09/2015
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I Balcani occidentali stanno riattirando l’attenzione di decisori politici, media ed opinione pubblica europei e non.

L’inasprirsi della pressione migratoria verso l’Unione europea (Ue), in particolare sulle frontiere greco-macedone e serbo-ungherese, il riesplodere delle tensioni etniche e politiche nell’ex Repubblica Federativa Yugoslava di Macedonia (Fyrom), l’emersione della minaccia dei foreign fighters in alcuni Paesi balcanici di confessione musulmana, gli effetti regionali della crisi internazionale e di quella greca, e l’attivismo diplomatico della Russia nella regione all’indomani della crisi ucraina, hanno riacceso i riflettori su un quadrante dell’Europa sud-orientale sovente trascurato dall’agenda di politica internazionale.

Ciò potrebbe avere implicazioni durature anche per il processo di allargamento dell’Ue alla regione, soggetto ad un progressivo e problematico ‘affaticamento’.

L’ ‘affaticamento’ del processo di adesione
Sebbene infatti la prospettiva di integrazione a termine di tutti i Paesi dell’area, sancita ufficialmente nel 2003 dal Vertice di Salonicco, rimanga ancora la dottrina ufficiale seguita da Bruxelles, come paiono confermare la recente adesione della Croazia nel luglio 2013, l’avvio dei negoziati di adesione con la Serbia nel gennaio 2014 ed il conferimento dello status di paese candidato all’Albania nel giugno seguente, sono ravvisabili segnali di crescente indebolimento dello slancio europeo verso i sei Paesi della regione.

In anni recenti, la frequenza ed il grado di intrusività nella politica di allargamento dell’Ue da parte dei suoi attuali Stati membri ha assunto proporzioni inedite, pur a fronte di un meccanismo decisionale da sempre intergovernativo.

Come esempi si annoverano l’aumento delle misure interne per controllare modi e tempi dell’allargamento (si pensi al ruolo del Bundestag tedesco od alla nuova clausola referendaria francese) e l’ulteriore rafforzamento del peso del Consiglio Affari generali e del Consiglio europeo quali motori decisionali dell’allargamento, a discapito del ruolo svolto dalla Commissione europea quale istituzione-garante dell’obiettività e della continuità di tale processo, come evidenziato attualmente dal caso della Fyrom, ed in passato dell’Albania, sui cui percorsi di adesione si sono registrate dissonanze di vedute tra il Berlaymont e diverse capitali europee in sede di Consiglio.

L’influenza crescente delle agende nazionali
A ciò si aggiunga la crescente influenza di considerazioni derivanti dall’agenda politica nazionale (ad esempio preoccupazioni sui temuti effetti dell’allargamento in termini di immigrati e richiedenti asilo per paesi come Germania, Regno Unito e Danimarca, pressione sul welfare state degli Stati membri più abbienti quali quelli scandinavi, dispute bilaterali come tra Fyrom, Grecia e Bulgaria, o tra Serbia e Romania, o il parallelismo tracciato tra caso kosovaro e situazioni interne in paesi come Spagna e Cipro).

Oppure ancora di riserve di carattere più generale: da una diffusa insoddisfazione delle cancellerie europee per i progressi nelle riforme politico-economiche di molti dei Paesi della regione, a un senso di crescente sfiducia verso le istituzioni Ue e verso lo stesso processo di integrazione europea, presente in numerose opinioni pubbliche nazionali.

L’attuale processo di ‘nazionalizzazione’ della politica di allargamento Ue presenta nel suo complesso alcune opportunità, ma anche notevoli rischi, per il futuro europeo dei Balcani.

Se infatti un ruolo più profilato delle capitali nazionali potrebbe spingere i Paesi della regione a prepararsi prima e meglio alla membership dell’Ue, a sua volta placando le resistenze interne a molti Stati membri verso un nuovo ciclo di allargamenti, dall’altro l’assenza di una chiara leadership politica in tale dossier, così come il moltiplicarsi delle opportunità di veto da parte degli Stati membri più scettici, rischiano di minare alla base la credibilità di tale processo, compromettendone la sua funzione storica di forza trasformatrice per l’intera area.

Tra rischi e opportunità, un cambio di rotta
Al fine di evitare che, a una crescente riluttanza delle capitali europee verso nuove adesioni dalla regione, segua un progressivo indebolimento, se non il latente abbandono, degli sforzi di riforma da parte dei candidati balcanici (specie quelli rimasti più indietro nell’adeguamento ai numerosi requisiti per l’adesione all’Ue, come Fyrom e Bosnia Erzegovina), è importante un cambio di rotta nell’approccio complessivo e nelle azioni concrete dei diversi attori coinvolti.

Ciò potrebbe passare, tra le altre cose, per una maggiore consultazione tra Commissione e Stati membri nel valutare e sostenere il processo di allargamento ai Balcani, per un appropriato bilanciamento da parte degli Stati membri tra una condizionalità più severa ed adeguati incentivi economici e politici per lo sviluppo della regione, fino ad una maggior impegno dei candidati balcanici nel coniugare una credibile agenda di riforme interne a una strategia diplomatica proattiva e pragmatica di distensione e cooperazione con le capitali europee ed i vicini regionali.

Alcuni recentissimi sviluppi politico-diplomatici nella regione, dalla conclusione di nuovi accordi sulla normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo, essenziali per il percorso europeo di tali Paesi, allo svolgimento della Conferenza di Vienna, secondo appuntamento di un processo integovernativo (ma a crescente ‘compatibilità’ europea) lanciato dalla Germania nell’agosto 2014, costituiscono contributi incoraggianti peril progressivo allargamento dell’Ue ai Balcani.

L’impulso, e l’interesse, italiano
In ragione della sua complessa esperienza storica e dei suoi molteplici interessi politici, commerciali e di sicurezza nella regione, l’Italia ha tradizionalmente esercitato una funzione di forte impulso all’integrazione europea dei Balcani, proponendosi quale ‘ponte’ diplomatico tra i candidati della regione ed i suoi partner europei. È quindi interesse primario italiano che la promessa europea di allargamento ai Balcani rimanga affidabile anche negli anni a venire.

L’adozione di una Strategia Ue per la Regione Adriatico-Ionica nell’ottobre 2014, durante la presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Ue, e la partecipazione di Roma, anche in veste di futuro organizzatore, alla Conferenza di Vienna lo scorso agosto, costituiscono, tra gli altri, un’opportunità preziosa per ridare visibilità ed iniziativa alla politica balcanica dell’Italia, contribuendo altresì a un solido ancoraggio europeo per l’intera regione.

Andrea Frontini è Policy Analyst presso lo European Policy Centre (EPC) di Bruxelles ed autore di un capitolo sull’Italia per il recente Issue Paper dell’EPC "EU member states and enlargement towards the Balkans".
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Immigrazione: Muri su Muri

Immigrazione
Muro dell’Europa sull’immigrazione
Enza Roberta Petrillo
17/09/2015
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I giorni dopo l’atteso Consiglio straordinario dei ministri dell'Interno dell’Unione, la politica migratoria europea ha il volto dei 316 migranti arrestati dalla polizia ungherese alla frontiera tra Serbia e Ungheria.

Dal 15 settembre, chiunque tenti di oltrepassare il muro di filo spinato costruito da Budapest lungo il confine con la Serbia rischia l’espulsione immediata o la condanna fino a tre anni di carcere.

Così prevede la nuova legge sull’immigrazione emanata dall’esecutivo nazionalista di Viktor Orban proprio mentre le cancellerie di Germania, Austria, Slovacchia e Olanda hanno annunciato il ripristino del controllo alle frontiere. Ossia il congelamento a data da destinarsi, della libera circolazione prevista dal trattato di Schengen.

La vittoria della falange del no
Fatti che spiegano lo scoramento di Dimitri Avramopolous, Commissario Ue all’immigrazione, che in tandem con il Presidente della Commissione Jean Claude Juncker aveva indetto il consiglio straordinario del 14 settembre al grido di “non c'è abbastanza Europa in questa Unione. E non c'è abbastanza Unione in questa Europa”.

La reprimenda di Juncker è però caduta nel vuoto e ad Avramopolous non è restato che ammettere la sconfitta. “Sono uscito dal consiglio Affari interni molto deluso. Mi aspettavo più appoggio da tutti. Ci sono Paesi che hanno una prospettiva più nazionale che europea. Ma noi andremo avanti”.

Eunavfor Med, al via la fase 2
Andare avanti, già. Ma come? Per ora sotto gli occhi di tutti c’è un consiglio terminato nel cuore della notte senza aver raggiunto neanche un’intesa unanime sulle conclusioni.

Un risultato ben più magro (e amaro) delle aspettative che circolavano a ridosso dell’apertura avviata da Angela Merkel. A vincere è stata l’intransigente falange del no (Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Romania) che ha bollato come inaccettabile il principio base del Piano Juncker, ossia l’obbligatorietà della redistribuzione di 160mila persone in evidente bisogno di protezione internazionale dall'Italia, dalla Grecia e dall'Ungheria”.

L’unico documento circolato al margine di un consiglio descritto come il peggiore dell’ultimo anno è quello della presidenza lussemburghese. Dieci righe striminzite che fanno riferimento all’unico risultato su cui il gruppo ha raggiunto l’unanimità: l’avvio della fase due dell’operazione Eunavfor Med, missione navale europea lanciata a giugno per “individuare, fermare e mettere fuori uso le imbarcazioni e i mezzi usati o sospettati di essere usati da passatori e trafficanti di migranti”.

Ora i mezzi di EunavforMed potranno effettuare “abbordaggi, perquisizioni, sequestri e dirottamenti in alto mare” delle imbarcazioni sospettate di venir utilizzate per il traffico di esseri umani.

Ma che cosa ci si può aspettare se l’unico terreno su cui il Consiglio è riuscito a trovare una convergenza è quello, consueto, del rafforzamento delle frontiere, e della lotta ai trafficanti? Molte cancellerie, Germania in testa, spingono per un colpo di coda.

Eludere, cioè, la mancata unanimità sui 120mila ricollocamenti, appellandosi all’ “accordo di principio suffragato da una larga maggioranza di Paesi" e ricorrendo alla votazione per maggioranza qualificata. Un’ipotesi rilanciata dal lussemburghese Jean Asselborn, presidente di turno dell'Ue, che potrebbe prendere forma nel prossimo Consiglio Straordinario, (l’ennesimo) indetto per il 22 settembre.

Hot spot
Di fronte a questo scenario, anche la moral suasion tedesca sulla rapida messa a punto degli hot spot (i centri per l’identificazione dei migranti da aprire nei paesi di primo approdo in cui avviare la redistribuzione tra gli stati membri) rischia di rilevarsi una trappola sia per i migranti che per i paesi in prima linea come l’Italia e la Grecia.

Diverse organizzazioni umanitarie tra cui il Consiglio Italiano Rifugiati, Arci e Amnesty International, temono che gli hot spot si traducano nei fatti, in centri di detenzione privi delle necessarie garanzie per un’identificazione sicura e rapida.

Questione che si intreccia con quella del meccanismo di redistribuzione dei richiedenti asilo previsto dal piano Junker. Uno schema, che stando all’interpretazione attuale rischia di duplicare le disfunzioni dell’ormai vituperato trattato di Dublino, visto che i titolari di protezione internazionale, anche in questo caso, non avranno modo di scegliere il paese in cui chiedere asilo.

Il fatto che l’Italia stia già lavorando ad un piano rapido per la messa a punto degli hot spot a Pozzallo, Porto Empedocle, Trapani e Lampedusa non significa, tuttavia, che la linea operativa sia già definita. Per il Viminale, infatti, l’attivazione dei centri resta vincolata a due questioni fondamentali: la ricollocazione rapida di 24 mila richiedenti asilo attualmente fermi in Italia e il rimpatrio (finanziato dall’Ue) dei migranti irregolari privi di titolarità per l’asilo.

Squadre di rapido intervento per il rimpatrio
Ciò che ad oggi è sicuro è che l’avvio della road map diffusa dalla Commissione per l’apertura degli hot spot non può iniziare senza un ripensamento complessivo delle competenze delle agenzie europee che unitamente ai governi nazionali gestiranno il piano dei ricollocamenti.

Europol, Easo, Eurojust, Eunavfor Med, ma soprattutto Frontex, l’agenzia per il controllo delle frontiere esterne dell’Ue a cui la Commissione hanno richiesto di avviare i Rapid Return Intervention Teams, squadre di rapido intervento per il rimpatrio. Queste dovrebbero operare in tandem con gli “European Migration Liaison Officers”, funzionari europei insediati nei paesi di origine e transito a cui spetterebbe di coadiuvare la riammissione dei migranti irregolari.

Ad oggi un’unica certezza: se la road map sarà sviluppata secondo le indicazioni della Commissione, i rimpatri e i ricollocamenti diventerebbero gli strumenti centrali di una politica migratoria europea ancora lontana dal concepire alternative legali all'immigrazione irregolare.

Enza Roberta Petrillo è ricercatrice post-doc presso l’Università “Sapienza” di Roma. Esperta di politica e geopolitica est-europea, si occupa dell’analisi dei flussi migratori con particolare attenzione al ruolo svolto dalla criminalità organizzata transnazionale nei traffici illeciti transfrontalieri (enzaroberta.petrillo@uniroma1.it).
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giovedì 17 settembre 2015

Ucraina: Peroshenko in difficoltà

Il 31 agosto, a Kiev, nella piazza antistante la Verkhovna Rada (il Parlamento) si sono verificati violenti scontri tra la Guardia Nazionale e diverse centinaia di manifestanti appartenenti a partiti e movimenti nazionalisti ucraini. Il bilancio delle violenze è di 3 morti (tutti membri della Guardia Nazionale, deceduti a causa di una granata lanciata da uno dei manifestanti) e diverse centinaia di feriti.
La manifestazione dei nazionalisti, tra i quali il partito di estrema destra Svoboda (Libertà), era stata indetta per protestare contro la “legge sull’autonomia”, misura legislativa mirante ad aumentare i poteri degli organi locali, tra i quali la raccolta e l’impiego diretto dei tributi nonché la gestione di “forze di sicurezza” su base cittadina e regionale. Tale legge, concepita in accordo alle disposizioni dei Protocolli di Minsk II, è stata giudicata dagli estremisti di destra come anti-nazionale e come legittimante l’insurrezione dei ribelli filo-russi nella regione orientale del Donbass. Tuttavia, tale accusa appare infondata, in quanto la Rada e Governo da una parte hanno aperto a timide misure di de-centralizzazione, ma dall’altra non hanno ancora chiarito quello che sarà lo status giuridico degli enti locali e, soprattutto, hanno disposto la nomina centrale dei Prefetti regionali. In ogni caso, prima di essere approvata, la “legge sull’autonomia” dovrà essere sottoposta al giudizio di conformità della Corte Costituzionale e, successivamente, passare il voto parlamentare con una maggioranza qualificata di almeno 300 voti. Un obbiettivo non facile, soprattutto se si considera il fatto che la legge ha passato la prima consultazione della Rada con appena 265 preferenze.
Al di là della questione del de-centramento, legato inevitabilmente alla guerra in Donbass e all’irredentismo filo-russo dell’est del Paese, le proteste del 31 agosto appaiono sintomatiche del malessere che attanaglia la società civile ucraina, frustrata dal perdurare della crisi economica e dalle feroci misure di austerity del governo. Deluso dalla lentezza o addirittura dalle mancanze del processo di riforme auspicato durante la Rivoluzione di Euromaidan, alcune sezioni del popolo ucraino hanno cominciato a vedere con scetticismo l’attuale classe dirigente. Grazie al malcontento e alla disillusione sempre più generalizzati, i movimenti populisti e ultra-nazionalisti hanno lentamente aumentato il proprio sostegno, ponendo una complessa sfida di governabilità per il presidente Poroshenko e il Premier Yatseniuk.

Ucraina

Fonte  C.E.S.I. Roma Vk 184

lunedì 7 settembre 2015

Immigrazione. L'Europa affronta il problema

Mediterraneo e oltre
Europa: le fughe e i ritardi
Pasquale Lino Saccà
04/09/2015
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Ipse, la signora dell’Est, dixit da Berlino 24 agosto, vertice Merkel-Hollande: aprire o attivare centri di registrazione o identificazione.

Però, successivamente venne la politica, con un “auspicio” - l’Unione può accogliere i rifugiati - e una scelta esemplare: sospende Dublino, ribadisce che la Germania non può essere nazista ed accoglie i profughi siriani. Ubi lex voluit, dixit; ubi noluit, tacit.

La Merkel, quindi, nel recente incontro con Hollande (direttorio non democraticamente incisivo) ha invitato Italia e Grecia ad aprire i centri di registrazione per identificare i rifugiati (migranti o disperati), rilanciando la necessità che l’Unione risponda con una propria politica alla massa di esseri umani che fuggono dalla fame e dalle bombe, convinti che l’Europa li accolga.

Ma nel contempo la Merkel, coerentemente, condannando ogni forma di razzismo che si era manifestata vicino a Dresda, ha sospeso Dublino ed ha aperto all’accoglienza in Germania dei rifugiati o profughi o disperati siriani.

Le sfide esterne sono in continuità: unificare l’Europa dopo la Germania, sensazioni vissute e rischi superati di una Germania “oscura”, approdata a Berlino.

Solidarietà “spontanea” e politica condivisa
Certamente, il fenomeno o apocalisse dei fuggitivi (fame e bombe) non riguarda soltanto il Medio Oriente con i tanti campi profughi e vuole una risposta politica che è in forte ritardo condizionata da interessi commerciali e finanziari.

La demografia, non secondaria, impone una governance continentale e intercontinentale: basti pensare che a Sud del Sahara vive o tenta di non morire una popolazione di quasi un miliardo di persone, per non trascurare la vicina Cina il cui muro vacilla tra mercato e governance.

L’Europa vive i suoi ritardi nel coniugare insieme integrazione economica e politica. Gli equilibri istituzionali attuali non consentono alla Commissione di governare l’Unione in un rapporto democratico ed istituzionale con il Parlamento e il Consiglio, ma sempre di più le sfide esterne, vedasi i fuggitivi per fame e bombe, impongono politiche europee essendo insufficienti e a volte dannose le scelte di singoli Stati.

In questo, aiuta rilevare le contraddizioni: mentre i Paesi Baltici chiedono una maggiore protezione militare ai sorvoli “turistici” provenienti dalla Russia, rifiutano la richiesta di aiuto dei disperati del Sud; così pure l’Ungheria, la cui memoria storica è latente, dimentica gli aiuti finanziari dell’Unione, per integrarsi senza soffrire, ed alza una barriera che come dimostrano i fatti è inutile; mentre si legge che la Serbia organizza un servizio di pullman che “alleggerisce” il viaggio di chi transita dai Balcani per raggiungere l’Europa del Nord, dove la Svezia rappresenta un esempio di accoglienza, assistenza ed integrazione.

Ci si chiede se non sia possibile attivare un servizio navale dal Sud al Nord per impedire tanti morti e costi di pattugliamento e salvataggio, in ritardo, così da gestire positivamente per vie legali la domanda di Europa.

Non si riflette abbastanza sulle conseguenze o incapacità di rendere lo sviluppo locale dei Paesi travolti dalle bombe, dalle guerre civili e religiose, usufruibile anche ai giovani e non solo a egoistiche e miopi oligarchie locali spesso connesse con la fiorente industria delle armi, che “però” aumenta il Pil.

La democrazia una via obbligata per una Comunità di dialogo
I confini nell’era digitale e delle fughe alla ricerca di un mondo migliore rimangono una sovrastruttura culturale, dovuta anche ai ritardi nel condividere le diversità. L’Unione dei piccoli passi è un esempio che è stato preso in considerazione per dare alle Organizzazioni internazionali un ruolo politico condiviso: non lasciamo che prevalga “la dottrina”.

Ma i recenti fatti dimostrano che bisogna rendere le Istituzioni europee più democratiche ed incisive, come così pure l’Onu; la Merkel ha detto, ma l’Unione ancora non ha deciso; così pure Ban Ki-moon ha convocato un vertice Onu “straordinario”, che si riunirà il 30 settembre.

In questo contesto è utile richiamare la scelta di Tsipras che, dopo aver raggiunto l’accordo con i creditori, ha ritenuto che ancora una volta i greci democraticamente si pronunciassero, mentre in altre realtà la sovranità popolare è “burocraticamente tutelata” - vedasi la vicenda di Roma.

Tante esperienze che aiutano a capire i ritardi nel definire i livelli di partecipazione e le paure a far prevalere la res pubblica. Non sfugge che i sistemi elettorali mostrano il loro deficit democratico non consentendo che tutte le esperienze o bisogni siano rappresentati.

Il contesto è geopolitico: per l’Europa s’impone di riconsiderare Barcellona e rilanciare una politica mediterranea di sviluppo locale, integrazione ed innovazione.

Il Sud con le tre penisole (Balcanica, Italica ed Iberica), in cui l’Italia è centrale, può svolger un ruolo; le Università possono innovare in ricerca e nella formazione di nuove figure professionali (ricordiamo Europa 2020 e la cattedra Jean Monnet ad personam); mentre le infrastrutture sia invisibili che visibili con i loro corridoi vanno rilanciate guardando a Suez ed a Kelibia in Tunisia.

In questo contesto nel nostro Sud va realizzata l’alta velocità e data continuità alla conurbazione dell’area dello Stretto di Messina.

Certo non è secondario ricordare che, nell’unificare una politica di accoglienza, va unificata la politica fiscale per non lasciare in terra i tanti paradisi fiscali, dove proventi leciti ed illeciti partecipano ad arricchire una finanza che non aiuta lo sviluppo locale aspettando Juncker ed il suo discorso al Parlamento di Strasburgo ed il vertice dell’Onu, preceduto dalla “benedizione” di papa Francesco, con sempre maggiore sofferenza, parziale indifferenza e deficit democratico.

La plenaria dell’Assemblea che inizia il 7 settembre darà la possibilità al presidente Juncker (che ha memoria storica) di esercitare il potere d’iniziativa della Commissione davanti ai rappresentanti del popolo europeo, così da evitare un ritorno all’Europa del Commonwealth con divieto di circolazione o delle Patrie e da riaffermare la Comunità oltre il Mediterraneo prima del prossimo vertice del 14 settembre: una Odissea con ritorno a Bruxelles nel segno della democrazia.

Pasquale Lino Saccà, J.M. Chair ad personam E.C. Roma.
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sabato 5 settembre 2015

Russia: ridimensionata la politica estera

Russia
Brics e Sco: le ambizioni, frustrate, di Vladimir Putin
Antonio Armellini
29/08/2015
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Vladimir Putin ha cercato di cogliere l’occasione della sua duplice presidenza nel 2015 del Vertice dei cinque Brics (Brasile, Cina, India, Russia e Sud Africa) e della Shanghai Cooperation Organisation - Sco (un’organizzazione economica e di sicurezza fondata da Russia e Cina con i paesi centro-asiatici circonvicini), per rilanciare il pivot to Asia di Mosca e mettere a punto con Pechino una linea che, limando le aree di contrasto, perseguisse l’obiettivo reciprocamente vantaggioso di ridimensionare l’influenza americana.

La violenza inattesa della crisi della Borsa cinese si è tuttavia sommata alla debolezza russa nel ridimensionarne le ambizioni.

Il nuovo Grande Gioco
Fra i palazzi e gli alberghi tirati su in fretta e furia per ospitare Xi Jin Ping, Narendra Modi, Hassan Rouhani e gli altri capi di Stato nella sin qui semisconosciuta città di Ufa, capitale della remota Repubblica russa del Bashkortostan, si è respirata un’aria da “grande gioco”.

Non quello di Rudyard Kipling, con cui nell’Ottocento Francia e Russia cercavano di contrastare in Oriente l’avanzata britannica in Asia e di mantenere in catalessi la Cina, bensì un gioco in cui le carte si invertivano e Russia e Cina si incrociavano muovendo da Oriente verso Occidente.

I Brics sono ancora alla ricerca di un’identità: l’idea di dare vita ad un asse Sud-Sud alternativo rispetto a quello tradizionale Nord-Sud dei rapporti economici mondiali è andata sbiadendo, mentre sul piano politico le posizioni si sono semmai divaricate, aldilà dell’omaggio rituale ad un terzomondismo d’antan.

Le pressioni di Putin per dare una veste politica più strutturata ai Cinque ed ottenerne l’appoggio ad esempio sull’Ucraina non sono andate lontano: Mosca ha mostrato del resto di avere più di una idea confusa, se è vero che avrebbe avanzato l’idea di una adesione della Grecia che, a parte strumentalizzazioni tanto improbabili quanto trasparenti, con l’asse Sud-Sud del mondo ha davvero assai poco a che fare.

Le crepe del capitalismo autoritario cinese non erano ancora del tutto evidenti a Ufa ma la debolezza del pilastro economico, che avrebbe dovuto essere l’altro asse portante del Vertice, ha inciso sui suoi risultati.

I Brics hanno lanciato la New Development Bank, Ndb, voluta da Mosca in concorrenza con la Aiib, la Banca di Sviluppo Asiatica promossa dalla Cina, ma l’ambizione di creare una alternativa al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale è rimasta sulla carta in presenza di fragilità diverse nella natura, ma simili nelle implicazioni.

Più differenze che similitudini
La Sco ha a differenza dei Brics una vera e propria struttura e ai sei membri originari si sono aggiunti, come osservatori, quasi tutti i paesi della regione: al suo interno si situano i punti di intreccio reali degli interessi contrapposti dei due Paesi.

Mosca si è adoperata per l’ammissione di India e Pakistan, al fine di recuperare spazi di mediazione in questo confronto tenendo un occhio sui rapporti fra Delhi e Pechino.

Per la Cina, una Sco allargata verso Sud e Ovest appare come la via per dare più forza politica alla “nuova via della seta” con cui intende assicurarsi l’accesso ai mercati mondiali che contano, cortocircuitando la Russia e controllando al tempo stesso l’India, che teme l’accerchiamento ma deve fare i conti con la diminuita presenza americana in un’area vitale per i suoi interessi, come l’Afghanistan.

L’imprevista debolezza cinese ha reso più facile la mediazione al Vertice fra le reciproche posizioni, ma i problemi di fondo sono rimasti inalterati. A Ufa era anche presente la Eurasian Economic Association (Eea), una organizzazione con cui Mosca ha cercato di unire quel che resta delle vecchie repubbliche sovietiche in una zona economica integrata, dalla Bielorussia al Kyrgyzistan.

Per la Russia l’Eea rappresenta la garanzia di un corridoio sicuro con l’Oriente attraverso l’Asia centrale e può entrare nel gioco tattico di influenze con la Cina, visto che la maggioranza dei suoi membri partecipa anche alla Sco.

Equilibri in spostamento e latitanze europee
Il nuovo “grande gioco” si estende dall’Asia centrale all’Afghanistan, dove i cinesi usano la carta pakistana e i russi cercano un raccordo con l’India, e i punti d’incrocio sono molti. Sino all’Iran, dove entrambi attendono di vedere come evolveranno i rapporti fra il regime degli ayatollah e gli Stati Uniti.

L’accordo sul nucleare civile obbligherà Mosca a una rivisitazione della sua politica nell’area, mentre ciò che conta per Pechino è la possibilità di un accesso non contestato: ad entrambi conviene tuttavia un Iran stabilizzato internazionalmente ed è per tale ragione che non si sono discostati dal quadro negoziale dell’occidente.

In un simile scenario, che conferma ancora una volta come l’asse degli equilibri mondiali si muova velocemente verso l’Asia, gli Stati Uniti seguono con attenzione e dall’Iran partirà verosimilmente un ripensamento della scelta di disengagement dalla regione.

E l’Europa? Lontana e sempre meno rilevante; è questa la cosa di cui, distogliendo di quando in quando l’occhio dal nostro ombelico, dovremmo preoccuparci di più.

Antonio Armellini, Ambasciatore d’Italia, è commissario dell’Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO).
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