Crisi Ucraina Il dilemma di Kiev Francesco Bascone 09/05/2014 |
L'Ucraina è da settimane di fronte a un bivio: ristabilire con la forza la sovranità sui focolai di ribellione o negoziare con gli esponenti della dissidenza filo-russa un compromesso costituzionale e di power sharing.
La dirigenza di Kiev sembra aver imboccato la prima strada. Il rischio di una guerra civile, le opzioni a disposizione di Mosca anche senza giungere ad una aperta invasione e la limitata legittimazione democratica dell’attuale governo ucraino avrebbero invece consigliato la seconda.
Kiev ha certamente il diritto di ristabilire l'ordine su tutto il territorio nazionale, usando non solo la polizia, ma anche l'esercito per mettere fine all'occupazione illegale di edifici pubblici e lo spadroneggiare di milizie armate.
E la Russia che ha combattuto due feroci guerre contro i separatisti ceceni e difeso contro gli occidentali l’azione repressiva di Milosevic in Kosovo è l'ultima a poter contestare quel diritto.
La questione è però un'altra: quali sono le probabilità di successo e quanto alto il rischio di acutizzare e allargare il conflitto?
Elezioni a rischio
La storia è piena di guerre lampo destinate a mettere davanti al fatto compiuto i protettori o alleati dell'avversario. Il centenario dell’inizio della prima guerra mondiale che ricorre fra due-tre mesi serve a ricordarci che l'esito è spesso molto diverso; ma quelle lezioni vengono volentieri ignorate.
I fatti di Odessa dovrebbero far riflettere sul pericolo di eccessi che non potranno che approfondire il solco psicologico, spingere molti incerti ad unirsi alla lotta, accendere nuovi focolai, infiammare l'opinione pubblica in Russia, forse anche offrire pretesti a Mosca per intervenire.
Anche ammesso che non si arrivi a una guerra civile e la Russia si astenga dall'intervenire apertamente, è difficile immaginare che la situazione nell'Est e Sud dell'Ucraina si calmi e consenta lo svolgimento regolare delle elezioni il 25 maggio.
Lo stesso governo di Kiev ha messo le mani avanti, ammettendo che potrebbero essere elezioni limitate al resto del Paese. Sembra non rendersi conto che in simili condizioni la consultazione popolare, lungi dal produrre una legittimazione del regime rivoluzionario, sarà un passo decisivo verso la spaccatura.
Persino nell'ipotesi ottimistica di un'elezione estesa a tutto il territorio, ma con un'alta percentuale di astensione nelle zone prevalentemente russofone, l'effetto sarebbe analogo.
Il buon senso suggerirebbe dunque la ricerca di un primo compromesso, con il rinvio della consultazione, come primo passo di un più ampio negoziato sulla riforma costituzionale: quel dialogo nazionale che l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione europea (Osce) è pronta ad organizzare e che lo stesso ministro degli esteri russo Sergei Lavrov ha in questi giorni nuovamente raccomandato di avviare in quella cornice.
Russofoni ignorati
La stessa Yulia Timoshenko ha ammesso, in un’intervista a Euronews, che la popolazione russofona dell'Est e del Sud dell'Ucraina non si sente rappresentata dall'attuale governo di Kiev e che quindi bisogna “ascoltarla” (sottinteso: non solo lasciarla sfogare, ma offrire concessioni).
Che cos'è allora che distoglie il premier ucraino Arsenij Jatsenjuk dall'offrire un serio dialogo nazionale, sotto l'egida dell'Osce e quindi con la benedizione della Russia e delle potenze occidentali, e lo spinge invece verso l'uso della forza?
Ad influenzarlo sono non solo i settori accesamente nazionalistici della sua compagine di governo, ma anche quei paesi europei, fra cui alcuni reduci dall'esperienza del blocco sovietico, che vedono come principale pericolo non la guerra civile ma l'appeasement.
Le lezioni di Georgia e Crimea
In quelle capitali europee, si ha ben presente la guerra che portò nel 2008 alla spedizione punitiva contro la Georgia e alla rioccupazione dell'Abkhazia e dell'Ossezia Meridionale, così come la recente amputazione quasi incruenta della Crimea, ma non se ne traggono lezioni realistiche circa le motivazioni e gli obiettivi delle azioni di Putin nel near abroad né circa la limitata capacità di deterrenza dell’Occidente, ma solo la convinzione che la Russia vada punita.
Salvo poi contare sulla collaborazione di Mosca per la liberazione degli ostaggi, così come - in altri contesti - per convincere gli iraniani a rinunciare all'armamento nucleare o per uscire dal vicolo cieco di un intervento militare in Siria incautamente annunciato.
Prendendo lo spunto dal contributo decisivo dato dall'inviato di Putin allo scioglimento del nodo degli ostaggi, varrebbe la pena dar credito all'affermazione russa di voler rispettare l'integrità territoriale dell'Ucraina (sottinteso: la Crimea è un caso sui generis, come il Kosovo secondo gli occidentali) e ricercare una sua più ampia collaborazione per evitare una nuova Jugoslavia alla frontiera dell’Europa. Abbiamo valide alternative?
Francesco Bascone è Ambasciatore d’Italia.
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La dirigenza di Kiev sembra aver imboccato la prima strada. Il rischio di una guerra civile, le opzioni a disposizione di Mosca anche senza giungere ad una aperta invasione e la limitata legittimazione democratica dell’attuale governo ucraino avrebbero invece consigliato la seconda.
Kiev ha certamente il diritto di ristabilire l'ordine su tutto il territorio nazionale, usando non solo la polizia, ma anche l'esercito per mettere fine all'occupazione illegale di edifici pubblici e lo spadroneggiare di milizie armate.
E la Russia che ha combattuto due feroci guerre contro i separatisti ceceni e difeso contro gli occidentali l’azione repressiva di Milosevic in Kosovo è l'ultima a poter contestare quel diritto.
La questione è però un'altra: quali sono le probabilità di successo e quanto alto il rischio di acutizzare e allargare il conflitto?
Elezioni a rischio
La storia è piena di guerre lampo destinate a mettere davanti al fatto compiuto i protettori o alleati dell'avversario. Il centenario dell’inizio della prima guerra mondiale che ricorre fra due-tre mesi serve a ricordarci che l'esito è spesso molto diverso; ma quelle lezioni vengono volentieri ignorate.
I fatti di Odessa dovrebbero far riflettere sul pericolo di eccessi che non potranno che approfondire il solco psicologico, spingere molti incerti ad unirsi alla lotta, accendere nuovi focolai, infiammare l'opinione pubblica in Russia, forse anche offrire pretesti a Mosca per intervenire.
Anche ammesso che non si arrivi a una guerra civile e la Russia si astenga dall'intervenire apertamente, è difficile immaginare che la situazione nell'Est e Sud dell'Ucraina si calmi e consenta lo svolgimento regolare delle elezioni il 25 maggio.
Lo stesso governo di Kiev ha messo le mani avanti, ammettendo che potrebbero essere elezioni limitate al resto del Paese. Sembra non rendersi conto che in simili condizioni la consultazione popolare, lungi dal produrre una legittimazione del regime rivoluzionario, sarà un passo decisivo verso la spaccatura.
Persino nell'ipotesi ottimistica di un'elezione estesa a tutto il territorio, ma con un'alta percentuale di astensione nelle zone prevalentemente russofone, l'effetto sarebbe analogo.
Il buon senso suggerirebbe dunque la ricerca di un primo compromesso, con il rinvio della consultazione, come primo passo di un più ampio negoziato sulla riforma costituzionale: quel dialogo nazionale che l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione europea (Osce) è pronta ad organizzare e che lo stesso ministro degli esteri russo Sergei Lavrov ha in questi giorni nuovamente raccomandato di avviare in quella cornice.
Russofoni ignorati
La stessa Yulia Timoshenko ha ammesso, in un’intervista a Euronews, che la popolazione russofona dell'Est e del Sud dell'Ucraina non si sente rappresentata dall'attuale governo di Kiev e che quindi bisogna “ascoltarla” (sottinteso: non solo lasciarla sfogare, ma offrire concessioni).
Che cos'è allora che distoglie il premier ucraino Arsenij Jatsenjuk dall'offrire un serio dialogo nazionale, sotto l'egida dell'Osce e quindi con la benedizione della Russia e delle potenze occidentali, e lo spinge invece verso l'uso della forza?
Ad influenzarlo sono non solo i settori accesamente nazionalistici della sua compagine di governo, ma anche quei paesi europei, fra cui alcuni reduci dall'esperienza del blocco sovietico, che vedono come principale pericolo non la guerra civile ma l'appeasement.
Le lezioni di Georgia e Crimea
In quelle capitali europee, si ha ben presente la guerra che portò nel 2008 alla spedizione punitiva contro la Georgia e alla rioccupazione dell'Abkhazia e dell'Ossezia Meridionale, così come la recente amputazione quasi incruenta della Crimea, ma non se ne traggono lezioni realistiche circa le motivazioni e gli obiettivi delle azioni di Putin nel near abroad né circa la limitata capacità di deterrenza dell’Occidente, ma solo la convinzione che la Russia vada punita.
Salvo poi contare sulla collaborazione di Mosca per la liberazione degli ostaggi, così come - in altri contesti - per convincere gli iraniani a rinunciare all'armamento nucleare o per uscire dal vicolo cieco di un intervento militare in Siria incautamente annunciato.
Prendendo lo spunto dal contributo decisivo dato dall'inviato di Putin allo scioglimento del nodo degli ostaggi, varrebbe la pena dar credito all'affermazione russa di voler rispettare l'integrità territoriale dell'Ucraina (sottinteso: la Crimea è un caso sui generis, come il Kosovo secondo gli occidentali) e ricercare una sua più ampia collaborazione per evitare una nuova Jugoslavia alla frontiera dell’Europa. Abbiamo valide alternative?
Francesco Bascone è Ambasciatore d’Italia.
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