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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

martedì 19 luglio 2011

3 La Russia e le relazioni con i paesi ex Comunisti Parte III

LE RELAZIONI TRA LA RUSSIA E I PAESI DELL’EX URSS

Stefano Silvestri

 
Lo spazio postsovietico, ancora in preda alle convulsioni della rapida e per certi versi imprevista disgregazione dell’URSS, è costituito da 15 Stati indipendenti: Russia, Estonia, Lettonia, Lituania, Bielorussia, Moldova, Ucraina, Georgia, Armenia, Azerbaijan, Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan, Turkmenistan e Uzbekistan (Schede Paese in ordine alfabetico da Allegato 3 ad Allegato 17).

La caratteristica peculiare di questo spazio, e allo stesso tempo quella che emerge immediatamente, è il fatto che esso è lo spazio dell’ex-URSS, ma l’URSS stessa è sorta sul territorio dell’ex impero russo che aveva gradualmente allargato i propri confini a spese dei suoi deboli vicini. Questo è il contrassegno oggettivo che permette di delineare lo spazio in esame. Le relazioni fra i Paesi sorti su di esso sono molteplici e spesso strette, ma la fonte di queste relazioni è sostanzialmente l’aver fatto parte dell’impero russo e dell’URSS, con tutte le conseguenze del caso. Per le altre caratteristiche la Repubblica russa di Buriazia lamaistica (citato Allegato1) difficilmente può far parte di una stessa comunità con l’Estonia protestante e l’Azerbaijan sciita, peraltro geograficamente distanti.

L’aver fatto parte dell’Impero e dell’URSS ha creato questo spazio, cioè ne ha definito i confini e determinato le caratteristiche strutturali. L’Impero russo, come ogni altro impero, aveva naturalmente un gran numero di tratti unici. In particolare, esso era una formazione compatta, nella quale i territori annessi non si trovavano al di là dei mari e degli oceani in diverse parti del mondo, come negli imperi coloniali creati dalle potenze europee occidentali, ma erano direttamente contigui al nucleo statale, quello della Russia, costituendone la periferia. E il nucleo era abbastanza pesante: i russi erano circa la metà della popolazione e le terre russe occupavano più della metà del territorio, mentre le periferie erano estremamente variegate, abitate da una molteplicità di popoli poco numerosi e molto diversi tra loro. Questa stessa organizzazione – un pesante nucleo russo ed una periferia variegata – è stata poi ereditata dall’URSS e tale, in sostanza, si conserva anche oggi se si esamina lo spazio postsovietico come un tutto unico. Ma è chiaro che a questa genesi e a questa praticamente costante organizzazione di tale spazio devono corrispondere adeguate caratteristiche delle relazioni interne ad esso.

Sullo spazio postsovietico un’integrazione di tipo europeo occidentale cozzerebbe inevitabilmente con l’effettiva e profonda diversità di peso specifico dei diversi Stati, con il retaggio del passato e con le vecchie abitudini che rendono in generale complessa l’instaurazione di relazioni paritarie. La struttura psicologica di questo spazio è assai diversa da quella europea occidentale ed è incomparabilmente più complessa e gravida di potenziali, e non solo, conflitti. La sua stessa natura (peculiarità della genesi e rapporti di forza esistenti) presuppone l’abitudine a dominare della Russia, la paura delle altre Repubbliche di fronte all’ex padrona, che continua ad essere un vicino molto forte, l’esacerbato amor proprio degli ex subordinati, alcuni dei quali non emancipatisi fino in fondo dal loro complesso di inferiorità, la tendenza a ricordare alla Russia le passate offese e a sforzarsi di mostrare all’ex padrona che non è più padrona per niente .

Per assurdo, l’unica integrazione che appare possibile è una “unificazione intorno alla Russia”, proprio ciò che spaventa e non vogliono gli altri Paesi che, peraltro, o hanno poco da spartire tra loro o, al contrario, hanno motivo di stabilire stretti rapporti e/o di creare comunità integrate. Si tratta di relazioni al di fuori della Russia che oggettivamente sostituiscono quelle con la Russia, si contrappongono ad esse e nell’insieme disintegrano lo spazio postsovietico. Quindi, l’organizzazione formale e simbolica di questo spazio in qualche misura si è andata conformando alla sua struttura reale. Le Repubbliche Baltiche hanno, infatti, interrotto definitivamente i legami formali con il resto dello spazio e sono destinate ad uno stabile sviluppo. Esse si sono mostrate organismi nazionali più preparati alla vita autonoma. I fattori più importanti in questo grado di preparazione non sono l’estensione del territorio o il numero degli abitanti e neanche la presenza di risorse naturali, quanto piuttosto fattori culturali e psicologici, il grado di autocoscienza nazionale la capacità di organizzarsi. Tutte le altre Repubbliche come abbiamo visto sono entrate, più o meno convintamente, a far parte della CSI nella quale formalmente sono tutti uguali, ma l’uguaglianza formale, in presenza di una notevole sostanziale disuguaglianza, si trasforma in una finzione e l’Organizzazione semplicemente non funziona e viene sostituita da un sistema di relazioni bilaterali della Russia con ciascuno degli altri membri.

Peraltro, la Russia come già evidenziato si trova attualmente in uno stato di transizione mentre le altre Repubbliche ex-sovietiche della CSI, con l’eccezione del Kazakistan che mostra un notevole dinamismo, si possono definire Stati mancati o in una situazione di costante debolezza. Inoltre, questi Paesi vedono il loro rapporto con Mosca da un’angolazione limitata e non scevra da dubbi. Particolare preoccupazione suscita la Bielorussia che è diventata terreno di particolare competizione/scontro tra la Federazione Russa, gli USA e la UE. In definitiva, si deve constatare che tra Mosca e le Repubbliche della CSI restano legami forti ma insufficienti a ricostruire una casa comune e che lo spazio postsovietico si è sfaldato e si sfalderà ulteriormente: i Paesi del GUAM non sono disposti a restare nell’orbita esclusiva di Mosca, ma guardano ad ovest; il Kazakistan guarda allo stesso tempo in tre diverse direzioni (Mosca, Washington e Pechino) e, più in generale, in Asia Centrale la Russia deve accettare il condominio con la Cina attraverso l’Organizzazione di Shanghai ; l’UE e la NATO impegnano regolarmente nel dialogo politico i paesi del Caucaso e dell’Asia Centrale. Pertanto, per la Russia lo scopo principale non può più essere di ristabilire una qualsiasi forma di controllo sullo spazio postsovietico, ma quello di trasformarlo attraverso nuovi rapporti, basati sull’indubbio fattore di vantaggio della prossimità e sull’interazione economica sociale e culturale, ed insieme ad esso trasformare anche lo spazio circostante – Europa, Medio Oriente e Cina – in un buon vicinato.

In tale contesto, la politica estera di Mosca, che indubbiamente sta acquisendo un nuovo prestigio internazionale, verso l’“estero vicino” – locuzione che designa lo spazio postsovietico (Allegato 18) – è recentemente entrata in una nuova fase a seguito delle cosiddette “rivoluzioni colorate” contro i regimi filosovietici in Ucraina, Georgia e Kirghizistan, appoggiate dall’Occidente, e all’allargamento sia della NATO sia dell’UE. In sostanza la Russia ha rinunciato ad “integrarsi” nell’Occidente ed ha cominciato a creare un proprio sistema di relazioni imperniato su Mosca. Per la prima volta dallo scioglimento dell’Unione Sovietica, i rapporti con le Repubbliche ex sovietiche sono diventati prioritari per Mosca che, altresì, al di là dell’”estero vicino” vede progressivamente ridursi in alcune aree l’influenza degli USA e considera la UE come un’entità economica, ma non politica e militare, e ritiene che rimarrà concentrata su se stessa e sul proprio sviluppo ancora per qualche tempo .

La ragione di questa nuova fiducia in se stessa sta in larga parte nella notevolmente migliorata situazione finanziaria della Russia, grazie in particolare all’incremento del prezzo delle risorse energetiche, e nel consolidamento del potere nelle mani dell’attuale èlite di governo.

In merito a questo “cambiamento” gli USA e la UE piuttosto che protestare - capitoli particolarmente controversi sono le violazioni dei diritti umani e ministati di Transdnistria, Ossezia del Sud, Nagorno-Karabakh e Abkhazia che si sono auto proclamati indipendenti con la protezione russa - dovrebbero riconoscere che i termini dei rapporti con la Russia, definiti concettualmente al tempo del collasso dell’URSS e rimasti pressoché immutati, sono cambiati in modo sostanziale. Oggi è necessario accettare che Mosca ben difficilmente si schiererà automaticamente a fianco dell’Occidente sulle più importanti questioni internazionali, ma si dovrà ricercare di volta in volta il maggiore grado di collaborazione possibile. La Russia di oggi, insomma, magari non è filo-occidentale, ma neanche anti-occidentale. Le prosieguo degli articoli si tratteranno i Paesi Europei (Estonia, Lettonia Lituania, Bileorussia, Moldova e Ucraina) e i Paesi caucasico (Georgia, Armenia e Azerbaijan.) ed i paesi Asiatici

2 La Russia e le relazioni con i Paesi ex Comunisti Parte II

IL SISTEMA POLITICO-COSTITUZIONALE DELLA FEDERAZIONE RUSSA

Stefano Silvestri

L’abbandono dei principi dello stato socialista, dell’unità del potere statale, della doppia dipendenza e del centralismo democratico per muovere verso l’accoglimento, almeno formale, della divisione dei poteri proclamato nella Dichiarazione sulla sovranità della Federazione Russa del giugno 1990, ha determinato non solo la modifica della forma di stato e di governo della ex-Repubblica Socialista Federativa Sovietica della Russia, ma anche la conseguente evoluzione delle forme di stato e di governo di quelli che, dopo la stipula del Patto Federativo del 1992, sono diventati gli attuali 89 Soggetti “componenti della Federazione Russa” (21 “Respubliki” (Repubbliche), 6 “Kraj” (Territori), 10 “Okrugi” (Circondari Autonomi), 49 “Oblasti” (Regioni), 1 “Oblast” autonoma e 2 Città di rilevanza federale, Mosca e San Pietroburgo - Allegati 1 e 2).

Tale processo di superamento, nei soggetti della Federazione Russa, dello schema basato sui “soviet”, non si è svolto in modo indipendente, ma è stato dettato dal centro tranne che nelle “Respubliki”. Mentre queste ultime hanno potuto, infatti, eleggere per la prima volta il proprio organo monocratico al vertice del potere esecutivo, previsto dalla Costituzione Russa e comunemente chiamato “governatore”, sulla base delle disposizioni emanate dai propri organi legislativi-rappresentativi, gli altri Soggetti della Federazione Russa hanno eletto i loro “governatori” in ossequio a quanto stabilito da specifici decreti del Presidente della Federazione pro tempore. Ciò è sostanzialmente riconducibile sia alla posizione di relativo privilegio di cui le “Respubliki” già godevano nel sistema sovietico, sia alla ricerca da parte di Eltsin del loro sostegno nella lotta contro il Presidente Gorbaciov in cambio di quella che potremo chiamare “diversa sovranità”.

Peraltro, l’introduzione in tutti i Soggetti della Federazione Russa - sulla base di un processo più o meno guidato dal centro - di organi monocratici a capo dell’esecutivo locale, non ha condotto nei medesimi alla stessa configurazione e dei rapporti tra questo ed il proprio organo legislativo-rappresentativo, cioè alla definizione di forme di governo locale tra loro omogenee.

Già nel processo di realizzazione appaiono evidenti la complessità, i limiti e la contraddittorietà, se non ambiguità, del sistema politico-costituzionale russo che è lungi dal provvedere ad un vero equilibrio tra i poteri dello Stato e lascia ampio spazio ad ogni genere di accomodamento. In tale contesto, il potere nella Russia post-comunista continua ad essere fortemente personalizzato attorno alla figura del Presidente-leader, mentre le varie istituzioni e strutture politiche fanno solo da contorno al potere centralizzato.

(1) Lo Stato

La Federazione Russa è un ordinamento giuridico di diritto civile di impostazione romanistica con una carta costituzionale scritta che stabilisce i fondamenti dello stato e la struttura normativa.

La legislazione russa rappresenta una sistema strutturalmente complesso di atti legislativi gerarchicamente organizzati a livello federale e locale e la Costituzione occupa il gradino più alto nella gerarchia delle fonti del diritto, seguita dalle Leggi Federali.

La Costituzione Russa, composta da 137 Articoli e 9 Disposizioni Finali e Transitorie, è stata promulgata il 12 dicembre 1993, dopo mesi di intenso confronto fra il Presidente Eltsin e il Parlamento, e sancita da un referendum popolare. Essa definisce la Federazione Russa - Russia - uno Stato di diritto, federativo, democratico con forma di governo repubblicana, in cui il potere è esercitato dal Presidente, dall’Assemblea Federale (Consiglio della Federazione e Duma di Stato), il Governo Federale ed i Tribunali Federali.

La Russia è una democrazia presidenziale in cui il Presidente occupa un ruolo autonomo e superiore fra i poteri dello Stato; egli è il Capo dello Stato, il Capo delle Forze Armate ed il garante della Costituzione, dei diritti umani e civili e delle libertà, nomina tra gli altri, il Capo del Governo Federale, di cui può presiedere le sedute, i Giudici dei Tribunali Federali e le alte gerarchie militari, mentre propone agli organi legislativi le candidature per molte altre importanti cariche quali i Giudici della Corte Costituzionale, del Tribunale Supremo e della Procura Generale, scioglie la Duma e indice nuove elezioni, dichiara lo stato di emergenza e la legge marziale, gode dell’immunità.

La Costituzione indica, altresì, i poteri dei singoli Soggetti della Federazione Russa per i quali, peraltro, non definisce la struttura delle forme di governo. Piuttosto sembra preoccuparsi principalmente di garantire l’unità della linea verticale del potere esecutivo dal livello centrale a quello locale. Stabilisce, infatti, che nelle materie di competenza congiunta, il Governo Federale e quello dei singoli Soggetti formano il sistema unitario del potere esecutivo in Russia, cosa che di per sé sembra comportare, in uno Stato che si proclama federale, una forte limitazione dell’autonomia delle sue parti componenti, tanto più che la Carta Costituzionale prevede anche che gli organi centrali del potere esecutivo e quelli locali possono delegarsi reciprocamente l’esercizio delle loro funzioni.

Come già precedentemente rilevato, la Costituzione non definisce la struttura degli organi esecutivi e legislativi-rappresentativi dei Soggetti, essa si limita ad affermare che il sistema di tali organi deve essere stabilito autonomamente dai Soggetti stessi e rinvia alla Legge Federale la fissazione dei principi generali in materia. Tale fondamentale legge per il funzionamento della Federazione è stata approvata solo nell’autunno del 1999 – la Costituzione è del 1993 – e disciplina in modo assai dettagliato gli organi in questione, non prevedendo invece la formazione di un sistema giurisdizionale nell’ambito dei Soggetti ove, pertanto, operano i Tribunali Federali. Proprio la l’ampiezza e la puntigliosità della legge in questione fanno, peraltro sorgere il dubbio che si tratti di una legge che enuncia solo principi e quindi inadeguata. E’, infatti, difficile riscontrare in altri Stati federali una regolamentazione di tale estensione disposta dallo Stato centrale nei confronti degli Stati membri. Appare, inoltre, paradossale, anche se lo è certamente meno se si considera l’evoluzione storica della struttura federativa russa, il fatto che mentre negli altri Stati federali – basti pensare agli USA ed alla Germania – le forme di governo locali sono omogenee sia tra loro sia rispetto a quella centrale, ancorché con alcune diversità, nella Federazione Russa invece, le forme di governo dei vari Soggetti presentano tra loro numerose e significative differenze e solo alcune di esse si avvicinano sensibilmente a quella della Federazione, nonostante una Legge ampia e dettagliata.

Al riguardo, ad esempio, la Costituzione da un lato proclama l’uguaglianza di tutti i Soggetti della Federazione nei rapporti reciproci con gli organi federali, mentre dall’altro consente di avere proprie costituzioni e lingue di stato alle “Respubliki” che spesso, anche se non costituzionalmente previsto ma non vietato dalla Legge Federale, hanno istituito anche una propria cittadinanza, ciò in contrapposizione con gli altri membri della Federazione le cui leggi fondamentali hanno solo il rango di “statuti” e non hanno il diritto di istituire lingue di stato o, tanto meno, proprie cittadinanze.

Un elemento di uniformità nelle varie forme di governo locali, al di là del presupposto dell’elezione diretta del capo dell’organo esecutivo e dei membri dell’organo legislativo-rappresentativo, è invece individuabile nell’obbligo di prevedere dei meccanismi di controllo reciproco tra detti organi per garantire il rispetto della Costituzione federale, delle Leggi Federali e delle costituzioni/statuti locali. Tuttavia, tali meccanismi hanno evidenziato una scarsa operatività.

Almeno formalmente, proprio le preoccupazioni sull’osservanza della Costituzione e delle Leggi Federali, hanno ispirato l’introduzione di un ulteriore elemento di uniformità tra tutti i membri della Federazione riconducibile a quella che viene chiamata “ingerenza federale”. In base alla modifica voluta da Putin nel 2000 della Legge Federale del 1999, infatti, il Presidente russo può, dopo che i competenti organi giurisdizionali abbiano accertato una violazione della Costituzione o della Legge Federale, rimuovere direttamente un “governatore” o chiedere alla Duma lo scioglimento di un organo legislativo-rappresentativo locale.

Infine le ultime modifiche alla Costituzione introdotte da Putin tra il 2002 e il 2003, relative a nuove modalità di formazione del Consiglio della Federazione, appaiono finalizzate soprattutto a diminuire il peso politico dei capi del potere esecutivo locale annullando la possibilità per gli stessi di essere contemporaneamente membri dell’organo legislativo-rappresentativo locale, della Duma e, in particolare, del Consiglio della Federazione nonché di poter essere eletti per più di due volte consecutive.

(2) Il Potere

Per analizzare la vera natura del potere russo, di capirne l’evoluzione, i limiti e le possibilità, si deve fare riferimento essenzialmente al potere del Presidente della Federazione, in quanto personificazione del potere russo.

Se, per una maggiore comprensione del modello presidenziale russo, si volesse compiere un accostamento con altri modelli più noti e consolidati quali quello americano e francese, rifacendosi al sistema legislativo russo (Costituzione, Leggi Federali, ecc.) appare evidente che il sistema di governo russo si avvicina di più al modello semipresidenziale francese. Questo in virtù della presenza di un Presidente della Repubblica Capo dello Stato e di un Governo distinto che necessita della fiducia del Parlamento, anche se solo per la figura del Capo del Governo.

Tuttavia, non si può sostenere che quella russa sia una sintesi tra sistema presidenziale e sistema parlamentare o che in Russia vi sia alternanza tra fasi parlamentari e fasi presidenziali.

Gli anni novanta dello scorso secolo non hanno visto fiorire una democrazia liberale di tipo occidentale, né si poteva pretendere che ciò accadesse cancellando d’improvviso secoli di storia nazionale e cultura politica russe.

In Russia vi è sempre e comunque un potere presidenziale molto forte, un sistema di iperpresidenzialismo con un premier debole ed un parlamento decorativo dalle funzioni molto limitate. Si è registrata in tal modo una impressionante, sproporzionata concentrazione di poteri nelle mani del Presidente.

Il presidenzialismo russo ha assunto, inoltre, caratteri assolutistico-autoritari, legati al fenomeno della personalizzazione della politica in Russia. I due Presidenti succedutisi in questi anni, in più occasioni, hanno ignorato ogni forma di legalità e mortificato le prerogative del Parlamento, riducendolo ad un ruolo notarile e provocando la periferizzazione del ruolo dei partiti nel sistema politico.

Il sistema politico eltsiniano era un misto di nuovo pluralismo, di oligarchia e di monarchia; Putin, appena salito al vertice della Federazione Russa, ha messo le cose in chiaro: la politica è una cosa, l’economia e il ruolo internazionale della Russia un’altra. Così chi ha voluto intromettersi nelle faccende del Cremlino ha rischiato una brutta fine, agli altri è stata garantita libertà d’azione con l’impegno di non intralciare la strategia di rinascita della Russia sullo scacchiere internazionale.

In aderenza a tale linea, Putin, pur conservando e consolidando il concetto di potere personalizzato, ha fatto della burocrazia la risorsa centrale e il sostegno base del suo potere. Tuttavia, ha creato una macchina burocratica del potere ancor più inaccessibile e lenta di quella sovietica e poco capace di reagire efficacemente sia agli impulsi esterni sia alle situazioni di crisi. Di fatto ha realizzato un centralismo ancora più ferreo del suo predecessore, facendo dipendere tutte le strutture locali da Mosca e dal Presidente . In sostanza,potenziando questo principio di centralismo-burocratico, non ha fatto altro che rafforzare l’idea di un potere basato su una nuova forma di autoritarismo.

Questa spinta autoritaria potrebbe interpretarsi come una deformazione del sistema russo in sé, ma, molto più semplicemente, appare la logica conseguenza dell’eredità del socialismo e dell’eltsinismo. Il sistema attuale nel suo complesso rimane ibrido, riconcilia il controllo statale dei principali assets del potere con gli spazzi autonomi per la classe media emergente e almeno una parte della società civile.

Putin ha realizzato diverse riforme politiche spesso in contrasto con la Costituzione e con la stessa struttura federativa della Russia. In certi casi hanno addirittura assunto i connotati di una svolta autoritaria: repressione della libertà di stampa, uso politico della giustizia, restrizioni sull’attività delle ONG, arbitraria rinazionalizzazione di importanti settori dell’economia. La scomparsa delle reti di informazione indipendenti e la liquidazione dell’opposizione appaiono però un chiaro segnale che il potere russo si sta staccando dalla società; inoltre, l’assenza di istituzioni realmente autonome, dimostra che la lotta politica si svolge dietro le quinte e che di conseguenza è impossibile prevedere lo sviluppo del processo politico, anche nella considerazione che gli attuali meccanismi costituzionali non permettono l’esistenza di una reale opposizione.

Si noti comunque che anche con Putin il potere in Russia, nonostante l’impressione di una certa esteriore compattezza , continua a non essere solido. Il problema non sono soltanto le contraddizioni interne a tale potere; bensì l’autoritarismo scelto da Putin come strumento di regolamentazione dei rapporti tra potere e società che contraddice le sue aspirazioni di modernità e, in qualche modo, lo rende anche vulnerabile e instabile. Al riguardo, non va dimenticato che a suo tempo, come si è visto, lo Stato sovietico crollò come un castello di carte anche perché era costruito in “verticale”. Quanto alle aspirazioni di modernità, appare innegabile che con Putin la Russia stia affrontando l’esperimento di dimostrare se sia possibile modernizzare la società senza le libertà politiche, allo stesso modo di quello che sta avvenendo in Cina e che, per un certo verso, fu il tentativo di Gorbaciov; peraltro, anche questa volta come nel 1991 l’insuccesso può spingere il Cremlino a cercare una nuova via d’uscita dal sistema tradizionale del potere personalizzato.

Un argomento, del resto, si può portare a favore di Putin: governare un Paese, che finora non aveva mai conosciuto un sistema democratico, come se si trattasse di uno con capitalismo sviluppato e democrazia consolidata sarebbe impossibile.

Allo stato attuale, realisticamente parlando, eventuali profonde riforme istituzionali in senso “democratico” hanno davanti un percorso molto, forse troppo complesso: sono molteplici gli impedimenti e innanzitutto gli eccessivi ostacoli previsti per revisionare in maniera parziale o completa la Costituzione. Non va ignorato, inoltre, che in Russia è sentita vivamente, almeno da una parte della popolazione, l’esigenza di una “mano forte”, di un “salvatore della patria”, di un governatore forte. Il popolo russo, infatti, si è pronunciato a favore dell’elezione diretta del Presidente, ha sancito l’entrata in vigore dell’attuale Costituzione presidenzialista ed ha comunque scelto e riconfermato prima Eltsin e poi Putin. La massa dei Russi rimane profondamente patriottica e vorrebbe recuperare rango e rispetto mondiale, nonché i simboli di un passato ritenuto glorioso.

A meno di due anni dall’appuntamento delle elezioni per la Duma e soprattutto da quelle presidenziali, è già in pieno svolgimento l’operazione successione. Infatti, Putin nel 2008, salvo improbabili colpi di scena (unione tra Russia e Bielorussia, nascita di un’altra entità post sovietica, modifica della Costituzione che permetta un nuovo mandato), dovrà lasciare la Presidenza della Federazione Russa e, in questo momento, appare realistico immaginare per il dopo uno scenario che vede la Russia traghettata verso una vera democrazia e un vero libero mercato in seguito ad un ulteriore periodo come quello attuale, pseudodemocratico. Per seguire questo auspicabile cammino è necessario il contributo dell’Occidente e, in particolare , dell’Europa che deve sforzarsi di capire cosa e perché succede a Mosca, anche a tutela dei propri interessi che non riguardano solo l’approvvigionamento energetico, ma anche la lotta al terrorismo islamico, la proliferazione nucleare in Medio Oriente e la stabilità dell’Asia Centrale, area fondamentale per lo sviluppo dei futuri rapporti con la Cina e l’India, problematiche in cui Mosca costituisce un attore di fondamentale importanza. Del resto, il Presidente russo recentemente ha fatto capire che la Russia si considera parte dell’Europa, senza però negare le differenze strategiche tra le parti. Al riguardo, basta seguire il dibattito interno russo per capire la direzione presa dalla grande nazione slava ed ortodossa. Il concetto di “democrazia sovrana”, ora di moda tra le elite putiniane, è illuminante. Piuttosto che estendere la democrazia il Cremlino ritiene prioritario rafforzare la sovranità del Paese. La Russia, pur non condividendo del tutto i valori della comunità occidentale, appare comunque pronta a dare il suo contributo alla soluzione dei problemi continentali e globali.

I La Russia e le relazioni con i paesi ex Comunisti Parte I


LA DISSOLUZIONE DELLA URSS E LA COMUNITA’ DEGLI STATI INDIPENDENTI

Stefano Silvestri

Due elementi sono stati peculiari del periodo storico apertosi nel 1945: il sistema internazionale fondato sul bipolarismo e la guerra fredda e lo sviluppo economico realizzato fino al 1970 dai sistemi del capitalismo e del socialismo.

Le loro storie sono corse a lungo parallele, fino a che è resistita l’autarchia voluta dall’URSS con il rifiuto di entrare nel sistema di “Bretton Woods” .

La convergenza cominciò al principio degli anni settanta, quando con la distensione l’Unione Sovietica dovette aprirsi alle relazioni economiche con il mondo capitalista. Nel corso degli anni settanta-ottanta, però, l’URSS non riuscì a compiere il cruciale passaggio alla terza rivoluzione industriale, ma dovette fare i conti con la globalizzazione e la sua sola potenza militare si rivelò una carta di basso valore. Finiva un epoca storica dei rapporti fra sistema internazionale sviluppo economico, segnata da sostanziale stabilità.

L’epoca successiva è quella del capitalismo globale e della rivoluzione telematica, con il multipolarismo economico (Stati Uniti, Europa, Cina, Giappone, India) e l’unipolarismo politico-militare degli USA tentati dalla carta unilaterale, ma in difficoltà nel governare un mondo reso fortemente instabile dal moltiplicarsi dei conflitti locali e dal terrorismo.

a. La crisi e la dissoluzione dell’URSS

Tra il 19 e il 21 agosto 1991 venne intrapreso a Mosca un tentativo di colpo di stato. Sono stati giorni cruciali per la fine dell’URSS. Molti forse pensarono che in tre giorni si potessero gettare le basi di una democrazia in un paese che tali basi non ne ha mai avute storicamente.

Eppure quei tre giorni, con Gorbaciov imprigionato nella sua dacia in Crimea e i carri armati per le strade di Mosca, furono l’alba abortita della democrazia russa ed il tramonto dell’esperienza sovietica.

Gorbaciov sostiene da anni che, se non fosse stato per il famigerato Comitato per lo Stato di Emergenza e suoi carri armati, le sue riforme avrebbero prodotto gli effetti sperati e, forse, la storia dell’URSS sarebbe potuta essere diversa. D’altronde oltre il 70% dei cittadini sovietici, interpellati nel referendum del 17 marzo 1991 aveva espresso il proprio sostegno ad una rinnovata Unione Sovietica.

In quei giorni sembrava imminente la firma di un nuovo patto federativo fra le Repubbliche Sovietiche che, nelle intenzioni di Gorbaciov, sarebbe dovuto diventare il trampolino per il nuovo futuro del paese più grande del mondo, finito invece in tragica macchietta: generali ubriachi a cui tremavano le mani durante la conferenza stampa, carri armati con musiche di pace, proclami di Eltsin, ordini di manette per tutti, generali galantuomini che si sparavano. Nel contempo, c’era tanta, tanta gente per le strade a difendere qualcosa che non aveva ben chiara in mente, pronta a morire per un ideale fumoso e confuso, ma con un idea apparentemente chiara in testa: indietro non si torna.

Le vicende del “golpe” e del “controgolpe” hanno d’altronde dimostrato come gli organi esecutivi del potere, tutti in mano ai cospiratori, non rispondessero più ai loro ordini, automaticamente e disciplinarmente come un tempo, e come, avendo rinunciato perciò ad utilizzarli per reprimere l’opposizione, sia stato facilissimo per il “controgolpe” demolire completamente gli organi di comando (Partito, KGB, Stati Maggiori e Governo) senza quasi reazione; di conseguenza tutte le Repubbliche dello Stato multinazionale sovietico hanno dichiarato immediatamente la loro indipendenza, sostituendosi al potere centrale ormai inesistente.

Il processo storico che ha condotto a tale esito si è svolto nel contesto di una sfida globale tra due mondi, o “imperi”, nella quale ha avuto un ruolo fondamentale la crisi di stagnazione dell’economia, dei valori, dello sviluppo sociale e della politica estera del blocco Orientale, compromettendone, di fatto per sempre, il futuro.

In sostanza, la rapida dissoluzione dello Stato multinazionale sovietico e del suo “Impero del Male” , verificatasi praticamente senza spargimento di sangue, ha avuto fattori lontani e profondi nonché cause prossime contingenti.

Con la facile “scienza del poi” si può affermare che negli anni di Brezniev si sono via via accumulati i presupposti della crisi della società comunista, cioè si è assistito alla lenta maturazione di una crisi potenziale.

In essa non c’era più uno Stato al servizio della società ma, al contrario, una società divenuta il materiale e il campo per l’attività dello Stato, il mezzo per soddisfarne ambizioni ed esigenze. Tutti gli aspetti della vita sociale erano ricaduti sotto la sua attenzione, compresi l’ideologia, la politica, l’economia, la cultura e lo sport; cioè tutto ciò che poteva avere importanza per la vita delle persone e per la società nel suo complesso.

Nel sistema brezneviano l’apparato del Partito assunse un superpotere nello Stato sopra delineato, con metodi di gestione conservatori e burocratici. L’ingranaggio era mastodontico e non poté che rivelare agli occhi di milioni di sovietici il suo scandaloso distacco dalla realtà, avviando un inarrestabile declino morale e ideale della società .

Di rilevante importanza nel processo di spinta verso la deflagrazione della crisi dell’URSS è stato anche il prolungato periodo di “guerra fredda” in cui l’economia di sussistenza dell’Unione Sovietica ha sostenuto spese superiori alle sue reali capacità, per assicurare al suo apparato militare le risorse necessarie per cercare di mantenere il passo con lo sviluppo degli armamenti attuato dall’Occidente e dagli USA in particolare (Scudo Stellare), in prospettiva di una possibile futura guerra contro l’Occidente stesso che Lenin aveva dichiarato “inevitabile”.

In tale contesto si inquadrano anche gli oneri di circa nove anni di guerra in Afghanistan che avevano visto, altresì, diffondersi largamente nell’URSS il risentimento nazionale per la perdita di vite sovietiche in una guerra straniera dagli incerti obiettivi e di grande costo materiale. Le truppe sovietiche completarono il loro ritiro il 15 febbraio 1989, ma l’URSS continuò a sostenere il regime fantoccio di Najibullah, insediato a Kabul, con cospicui aiuti economici e militari fino alla fine del 1991.

Si può quindi affermare che il sistema sovietico è invecchiato fino alla decrepitezza e non è stato capace di rinnovarsi, come anche la stessa società sovietica richiedeva, tanto da morire rapidamente per esaurimento prima che Gorbaciov, almeno nelle intenzioni, riuscisse a rianimarlo.

L’ascesa al potere di Gorbaciov rappresentò, in qualche modo, un cambio di generazione e diede un nuovo impulso alle riforme che erano sostanzialmente entrate in stallo nel periodo 1964 – 1982. Tuttavia, paradossalmente causa contingente del crollo subitaneo dello Stato Sovietico e dell’Impero è stata proprio il tentativo gorbacioviano di salvare il sistema politico e l’economia al collasso per mezzo di due principi:

• Perestrojka , quale processo di ristrutturazione della gestione del potere e dell’amministrazione dello Stato, a partire dal 1986, al fine di dare vita ad un nuovo sistema economico più efficiente e redditizio, basato sul decentramento, sull’iniziativa degli enti locali periferici e su quella privata;

• Glasnost , entrata nel linguaggio politico dal 1987, con riferimento alla necessità di rendere pubblici, trasparenti, gli atti del Governo e del Partito; diventata poi sinonimo di libertà di stampa, di parola, ecc.. Strumento per cambiare la mentalità della gente, coinvolgerla e renderla partecipe del processo generale di rinnovamento del Paese.

Concedere autonomie ed alcune libertà e limitare poteri e possibilità di azione degli organi ed apparati che avevano tenuto fino ad allora sotto controllo centrale tutti i Paesi e le Istituzioni della galassia sovietica, impedire o frenare le forze di repressione, ha fatto cessare la paura, uno dei collanti del sistema, ha fatto emergere le opposizioni ed ha consentito il rinascere ed il riaffermarsi degli antichi sentimenti nazionali e degli antichi rancori e contrasti di interessi .

In definitiva, i programmi politici di Gorbaciov sono stati una sorta di trappola, in quanto ebbero effetti negativi sulla economia sovietica, che già soffriva di una forte inflazione nascosta e di una diffusa carenza di approvvigionamenti, e non hanno salvato il sistema comunista, anzi hanno aggravato ulteriormente la crisi già prima in atto.

Oggi la fine dell’Impero Russo, già zarista, già sovietico, ci appare come una formidabile cesura storica. Un dramma ancora in atto, che evoca scenari complessi e preoccupanti per il mondo e anzitutto per l’Europa.

b. La Comunità di Stati Indipendenti (CSI)

Dopo la disgregazione dell’URSS e la formazione di 15 repubbliche indipendenti, concretizzatesi tra febbraio e dicembre 1991, la sussistenza di un sistema economico integrato in piena crisi produttiva, costruito su un’interconnessione industriale, commerciale e finanziaria, favorì la costituzione fra 12 delle citate ex Repubbliche sovietiche della Comunità degli Stati Indipendenti (CSI). Organismo interstatale, egemonizzato da Mosca, dalla natura, caratteristiche e strutture in costante evoluzione.

(1) Gli accordi precedenti allo Statuto del 1993.

L’Accordo di Minsk dell’8 dicembre 1991, sottoscritto dalle tre Repubbliche “slave” dell’ex URSS (Russia, Bielorussia e Ucraina) chiude un’epoca storica e ne apre una nuova. Infatti, sancisce la fine dell’Unione Sovietica come soggetto di diritto internazionale e da vita alla Comunità degli Stati Indipendenti .

L’Accordo è il risultato finale di un processo storico-politico iniziato nel 1989 con lo scopo, ufficialmente dichiarato dai protagonisti, di riformare il Trattato d’Unione del 1922 da cui era nata l’URSS. Il negoziato durò circa due anni, messo in pericolo, ma non interrotto, dal “golpe” del 19 agosto 1991, caratterizzato dal continuo operare di forze centrifughe e da uno scontro tra la volontà dell’Unione Sovietica di salvare se stessa e l’inaccettabilità di tale disegno per le Repubbliche che nel frattempo si erano dichiarate sovrane. Tale scontro ebbe termine con la dissoluzione della struttura statale e politico-ideologica dell’URSS, il superamento dell’obiettivo di riforma del Trattato del 1922, l’abbandono del federalismo sovietico e l’adozione dell’Accordo di Minsk.

In sostanza, esso nasce dalla necessità di riordinare le relazioni economiche e soprattutto di suddividere le eredità sovietiche basandosi sul principio della convivenza pacifica e secondo le esigenze di “sovranità economica”, oltre che “politica”, dei nuovi Stati indipendenti.

La CSI in versione “slava” si era impegnata a promuovere riforme economiche coordinate, a costruire rapporti economici e contabilità sulla base di una moneta unica, il rublo, a controllare emissione e massa monetaria, a concordare la riduzione dei rispettivi deficit, a fissare un sistema unico per i pagamenti e a realizzare comuni politiche doganali, fiscali, dei prezzi, sociali approntando al più presto meccanismi per la realizzazione degli accordi interrepubblicani . Resteranno in gran parte intenzioni, anche dopo l’entrata in vigore nel 2005 di una zona di libero scambio ed unione economica fra gli stati membri dell’attuale CSI.

L’Accordo di Minsk fu accolto dalla maggior parte delle altre Repubbliche – esclusi i tre Stati Baltici e la Georgia – che dichiararono però di volervi aderire come membri fondatori originari. In particolare, l’Armenia mostrò da subito un sostanziale favore all’Accordo, non altrettanto può dirsi della prima reazione avuta dalle cinque Repubbliche dell’Asia Centrale (Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan ed Uzbekistan) indisposte per essere state escluse dal negoziato che aveva prodotto l’Accordo. Tuttavia, non potendo ignorare le conseguenze negative che avrebbe comportato la mancata partecipazione al processo di integrazione fra gli Stati dell’ex URSS e valutati gli aspetti positivi dell’Accordo, si allinearono a questo processo a condizione però che ciò avvenisse in qualità di membri fondatori originari e che fosse riconosciuta la loro integrità territoriale.

Il 21 dicembre 1991, in occasione del vertice di Alma-Ata (città kazaka), la CSI, avvalendosi della possibilità riconosciuta dall’Accordo di Minsk, accolse altre 8 Repubbliche (Azerbaijan, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan, Moldova, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan), la Georgia inviò soltanto propri osservatori. L’ingresso dei nuovi Stati fu sancito dalla sottoscrizione, anche da parte dei tre Stati contraenti l’iniziale Accordo di Minsk, di vari documenti che, tra l’altro, riaffermavano che con la nascita della CSI cessava di esistere l’URSS.

Gli Accordi di Minsk e Alma-Ata partono dalla presa di coscienza e dal riconoscimento dei fortissimi legami venutisi a creare fra i rispettivi popoli nel corso della storia, per dichiarare la convinzione che il rafforzamento delle relazioni di amicizia, buon vicinato e cooperazione corrisponde agli interessi fondamentali di ciascuna nazione. Gli stessi documenti però precisano che gli Stati membri della CSI intendono sviluppare i loro rapporti sulla base del rispetto reciproco, della propria sovranità statale, dell’uguaglianza e della non ingerenza negli affari interni altrui. Allo stesso modo gli Accordi prevedono che la CSI svolga le sue attività su base paritaria, tramite istituzioni comuni, ma nel contempo precisano che la Comunità non è uno Stato né una struttura sopranazionale.

Questa continua ambivalenza fra disponibilità a cooperare e rispetto della reciproca indipendenza, è la prova che l’obiettivo degli Stati membri della CSI era più quello di garantire una separazione pacifica ed una convivenza rispettosa della reciproca libertà d’azione appena conquistata, piuttosto che una sostanziale collaborazione; una sorta di sistema di coordinamento, insomma, da cui tutti avrebbero dovuto trarre utilità e convenienza.

L’istituzionalizzazione della CSI proseguì lentamente per l’opposizione dell’Ucraina, della Moldova e del Turkmenistan alla costituzione di nuovi organi di coordinamento, che temevano potessero condurre a limitazioni di sovranità. Tali stati si mostrarono interessati ad una cooperazione di tipo essenzialmente economico.

Per superare la situazione di stallo creata dallo scontro di opposte tendenze e rilanciare il processo di graduale rafforzamento della CSI, la ricerca della collaborazione per il mantenimento della pace e della sicurezza all’interno degli Stati membri apparve il modo migliore. Peraltro, già con la firma nel 1991 dell’Accordo di Alma-Ata erano stati attribuiti alla Russia sia il controllo sul deterrente nucleare ex sovietico di cui, in tal modo, si garantiva la sopravvivenza sia il seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, già dell’URSS. In tale quadro, il 20 marzo 1992 a Kiev (capitale ucraina) ed il successivo mese di maggio a Tashkent (capitale uzbeka) vennero rispettivamente stipulati l’Accordo e i relativi Protocolli attuativi che istituivano un sistema di garanzia comune per prevenire o risolvere eventuali conflitti interni alla CSI, attraverso la costituzione e l’utilizzo di gruppi di osservatori militari e di forze di peace-keeping. I documenti furono sottoscritti da tutte le 10 Repubbliche che all’epoca aderivano alla CSI, con alcuni distinguo da parte dell’Ucraina e dell’Azerbaijan tese ad affermare la propria libertà decisionale anche in tale materia.

Già nell’estate 1992 Mosca, anche sulla base degli Accordi stipulati, mise in moto un minimo dialogo interstatale tentando di circoscrivere le diverse crisi (Transcaucasica, Asia Centrale e Moldova) impiegando inizialmente le forze ex-sovietiche ancora presenti in quei territori, successivamente affiancandogli contingenti di interposizione della CSI. L’istituzione di queste forze multilaterali non ha comunque significato il contestuale ritiro dai vari territori dei contingenti russi che, anzi, si sono andati trasformando in presenza militare federale stabile svolgendo anche una funzione residuale di peace-keeping (peace-enforcement, ove necessario) e di tutela delle popolazioni russe residenti in diverse Repubbliche ex-sovietiche, attraverso una serie di intese che la Russia ha progressivamente stipulato con questi membri della CSI che le hanno concesso l’uso di basi militari per le quali, in qualche caso, in anni recenti è stato avviato un processo di smantellamento tuttora in corso.

Questa particolare situazione ha di fatto istituito una sorta di droit de regard da parte della Russia nei confronti delle Repubbliche ex-sovietiche, nonostante le proteste nelle sedi internazionali ONU, OSCE e Consiglio d’Europa, che si sono viste limitare la loro capacità d’azione. Mosca ha consentito solo la presenza di missioni di osservazione e buoni uffici, ma ha sempre posto un fermissimo veto allo schieramento di forze militari internazionali extra CSI .

(2) Lo Statuto del 1993.

Il secondo e decisivo passo verso lo sviluppo della collaborazione interna alla CSI fu la decisione del Consiglio dei Capi di Stato della Comunità, presa al citato vertice di Tashkent del 15 maggio 1992, di conferire ai Ministri degli Affari Esteri e al Segretario il compito di elaborare il progetto di un nuovo Trattato. Il 22 gennaio 1993, durante il vertice di Minsk, venne firmato lo Statuto della CSI da 7 Stati (Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Russia, Tagikistan ed Uzbekistan), i quali approvarono anche una dichiarazione unitamente alla Moldova, alla Ucraina e al Turkmenistan in cui questi ultimi, che avevano preso parte solo alla discussione per la ratifica dello Statuto senza firmarlo, manifestavano fiducia sulle potenzialità della CSI riservandosi il diritto di sottoscrivere lo Statuto in data posteriore. L’Azerbaijan si era nel frattempo ritirato dalla Comunità.

Lo Statuto è stato successivamente ratificato anche dalla Moldova, dall’ Azerbaijan, che era rientrato nella Comunità, dall’Ucraina, dal Turkmenistan e in fine nel dicembre 1993 anche dalla Giorgia, in circostanze controverse a seguito di una guerra civile nella quale intervennero truppe russe. Del tutto estranee a questo processo sono invece sempre rimaste le tre Repubbliche Baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania).

Lo Statuto riafferma la natura volontaristica della CSI, che “non è uno Stato e non ha mandati sopranazionali” (Art. 1, par. 3), ed il principio di uguaglianza assoluta di tutti i membri, quali soggetti indipendenti e paritari di diritto internazionale. Le finalità della Comunità, oltre alla prevenzione o soluzione pacifica delle controversie e dei conflitti intestini, comprendono la collaborazione in campo politico, economico, giuridico, ecologico, umanitario, culturale e “in altri campi” (Art. 2). Quest’ultima disposizione di fatto lascia aperta la possibilità di cooperare per altre finalità che emergessero in futuro.

Artefici principali della collaborazione in tutte le suddette aree sono i due organi di vertice della CSI, il Consiglio dei Capi di Stato ed il Consiglio dei Capi di Governo . Il primo è l’organo direttivo della Comunità e svolge essenzialmente il ruolo politico di analizzare, decidere e/o risolvere le questioni di principio, mentre il secondo ricopre sostanzialmente il ruolo di coordinare l’operato dei vari esecutivi nazionali. Entrambe i Consigli adottano le decisioni con il metodo del consenso che consiste nel deliberare in assenza di qualsiasi obiezione che ostacoli la decisione stessa. Inoltre, lo Statuto prevede anche il principio della parte interessata che consente a qualunque Stato di dichiarasi disinteressato ad una questione senza che ciò ostacoli l’adozione della decisione i cui effetti non si estendono nei suoi confronti. Dalla combinazione delle due regole paradossalmente proprio gli Stati non interessati ad un problema possono, di fatto, esercitare un diritto di veto che di per se non sarebbe previsto. L’ambiguità di queste procedure incide negativamente sulle capacità della CSI di raggiungere obiettivi concreti, ammesso che questa sia la volontà di tutti i firmatari dello Statuto. Infatti, se da una parte si favorisce la stipula del maggior numero possibile di accordi tra gli Stati membri, dall’altra si tratta di accordi realisticamente difficili da realizzare e che potrebbero essere conclusi anche da due soli Stati membri pregiudicando il formarsi di una chiara ed univoca volontà della Comunità e finendo per ostacolare il suo stesso funzionamento.

Va altresì sottolineato che fra gli organi della CSI non esiste nessun tipo di collegamento, se non la possibilità di sottoporre ogni questione al Consiglio dei Capi di Stato che definisce in via esclusiva le norme procedurali per il funzionamento di ogni altro organo.

Nonostante la CSI abbia pochi poteri sopranazionali è comunque qualcosa di più che una organizzazione simbolica, in quanto ha un potere di coordinamento nel commercio, nelle finanze, nel campo legislativo e nella sicurezza. Tuttavia, ha vissuto e vive precariamente soprattutto per volontà di almeno qualcuno degli stessi Stati membri che teme di rientrare pesantemente sotto l’egemonia della Russia, la quale già occupa una posizione economica dominante nella CSI. Basti ricordare che le sue esportazioni verso i Paesi della Comunità sono costituite per circa il 70% da merci strategiche, quali materie prime e risorse energetiche, e la sua bilancia commerciale con gli stessi presenta negli anni 2003/2004 (ultime stime disponibili) un avanzo di circa 9 miliardi di dollari.

In sostanza, nonostante la struttura formalmente paritaria e le finalità istitutive, la CSI non è stata e non è né un foro consultivo né, tantomeno, un organismo decisionale costantemente capace di mediare i complessi e, tal volta, conflittuali rapporti tra la Russia e le Repubbliche ex-sovietiche, che più spesso si sono svolti in un sistema di relazioni bilaterali. Nonostante tutto, la capitale della CSI non è Minsk, come prevede lo Statuto, ma Mosca.