Diritto internazionale Natalino Ronzitti 16/07/2013 |
L’affaire Snowden solleva vari quesiti sotto il profilo del diritto e delle relazioni internazionali. Si può concedere l’asilo politico ad un fuggiasco implicato in un caso di spionaggio? Hanno correttamente agito gli Stati europei che hanno negato il sorvolo del loro territorio all’aereo su cui era imbarcato il presidente boliviano Morales, sospettato di aver a bordo Snowden?
A tali quesiti è stata in parte già data risposta. Per quanto riguarda l’Italia, bene ha fatto il nostro governo a non concedere a Snowden l’asilo, poiché gli Stati Uniti non sono certamente un paese che non assicura le libertà democratiche, condizione necessaria per l’applicazione dell’art. 10, comma 3 della nostra Costituzione per la concessione. Quanto al diniego del transito attraverso lo spazio aereo nazionale, è da ricordare che obblighi sussistono per l’aviazione civile secondo la Convenzione di Chicago del 1944, ma non per gli aerei di stato, quale quello su cui viaggiava il presidente boliviano.
Spionaggio tra amici
L’aspetto più inquietante dell’affare Snowden riguarda lo spionaggio tra alleati, che poi è a senso unico in quanto realizzato dalle varie “agenzie” americane nei confronti degli alleati europei, Italia inclusa, e delle istituzioni dell’Unione europea (Ue), sollevando le reazioni particolarmente indignate del Parlamento europeo, che il 4 luglio ha adottato una risoluzione di condanna e ordinato un’inchiesta. Prendendo spunto dall’affare Snowden si è chiesto se esistano regole in materia, che dovrebbero riguardare tutti gli stati, non solo i potenziali nemici, ma anche gli alleati.
In questo secondo caso la trasgressione di regole sarebbe aggravata dalla violazione del rapporto di fiducia, che dovrebbe vigere tra potenze amiche. Né può essere consolatorio l’affermare che “così fan tutti” e che lo spionaggio, o come oggi si chiama “attività di intelligence” per nobilitarlo, è sempre esistito. Addirittura si invocano regole internazionali per disciplinarlo. Ma si tratta di esternazioni di chi non conosce 36bene i rapporti che regolano la comunità internazionale, poiché a nessuno è mai venuto in mente la stipulazione di una convenzione internazionale sullo spionaggio.
In realtà talune regole esistono, ma vanno ricavate da altri settori del diritto internazionale.
Spionaggio in tempo di guerra
In primo luogo occorre distinguere tra lo spionaggio in tempo di guerra e in tempo di pace.
Lo spionaggio in tempo di guerra è l’unico oggetto di una disciplina ad hoc. Tanto il Regolamento annesso alla IV Convenzione dell’Aja del 1907 quanto il primo Protocollo addizionale alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 disciplinano il fenomeno, definendo “la spia” che, in caso di cattura, non ha diritto allo status di prigioniero di guerra ed è soggetta alla potestà repressiva dello stato che la cattura. Lo stato, per cui la spia agisce, non commette però alcun illecito internazionale. Si tratta di regole fatte proprie dalla consuetudine internazionale.
Spionaggio in tempo di pace
Diversa è invece la disciplina dello spionaggio in tempo di pace, estremamente frammentaria e non oggetto di una precisa regolamentazione.
Talune norme possono essere ricavate dalla Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 1961. Si prescinde qui dall’ipotesi dell’attività di intelligence condotta dall’agente diplomatico o dal personale della missione (ad es. addetto militare). Piuttosto si faccia il caso dello spionaggio ai danni della missione diplomatica straniera ad opera dello stato ospite, mediante l’introduzione di congegni elettronici nei locali della missione. È quanto avrebbero fatto i servizi americani nei confronti dell’ambasciata italiana a Washington (e delle sedi diplomatiche di altri governi alleati), secondo le rivelazioni di Snowden, poi smentite dalle nostre autorità (almeno per ora).
In questo caso vi sarebbe una flagrante violazione dell’art. 22 della Convenzione di Vienna, secondo cui i locali della missione sono inviolabili. Ma vi è di più. Probabilmente lo spionaggio ai danni della missione diplomatica realizzato senza intrusione di congegni nei locali della missione, ma con apparecchiature esterne potrebbe realizzare una violazione della “pace della missione” ed un’offesa alla sua “dignità”, anche queste vietate dallo stesso articolo della Convenzione di Vienna.
Lo stato in violazione del diritto internazionale dovrebbe riparare l’illecito e addirittura dare “garanzie e assicurazioni di non ripetizione”! Si aprirebbe addirittura la strada di un ricorso alla Corte internazionale di giustizia nei confronti di quegli stati che, come gli Stati Uniti, hanno ratificato il Protocollo facoltativo alla Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche.
Quanto affermato nei confronti dello spionaggio ai danni delle missioni diplomatiche, vale in linea di principio anche per le organizzazioni internazionali, ma una sua precisa configurazione dipende dall’accordo di sede stipulato con l’organizzazione internazionale dallo stato ospite.
A parte la questione delle missioni diplomatiche, lo spionaggio in tempo di pace costituisce una violazione della sovranità territoriale quando l’agente straniero penetri in territorio altrui ed operi clandestinamente senza il consenso dello stato territoriale. In tal caso egli non può invocare nessuna immunità dalla giustizia locale, tranne che sia un agente diplomatico.
Nemmeno è ammissibile l’osservazione aerea tornata in auge con l’uso di droni, in assenza di una disposizione permissiva stabilita nei trattati sul controllo degli armamenti. Né costituisce un esempio il Trattato sui cieli aperti del 1992, entrato in vigore 10 anni dopo, che autorizza gli stati parte a sorvolare il territorio di un’altra parte allo scopo di condurre voli di osservazione.
L’acquisizione di dati effettuata a partire da spazi non soggetti alla sovranità di alcuno è libera. Così non costituisce violazione alcuna dell’altrui sovranità territoriale l’osservazione satellitare oppure l’acquisizione di informazioni sensibili operata da navi in alto mare.
Cyberspionaggio
Ma l’aspetto più inquietante delle rilevazioni di Snowden riguarda l’acquisizione di dati che il progresso tecnologico rende possibili senza la dislocazione di agenti in territorio altrui e quindi senza violare fisicamente la sovranità territoriale di uno stato straniero. La cosa non è nuova. Già nel 1988 un rapporto del Parlamento europeo sottolineava la quantità di dati captati dagli Stati Uniti. Quindi molti anni prima di Echelon.
La manipolazione tecnologica può essere usata per scopi militari al fine di infliggere danni al nemico (ad es. l’accecamento delle sue difese) e rientra nel concetto di cyber war. Ma può essere usata anche per acquisire informazioni sensibili di natura militare oppure per combattere la criminalità o il terrorismo internazionale.
Non è chiaro o non è stato ancora definitivamente acquisito quanto e come i grandi gestori delle reti collaborino con le organizzazioni di intelligence. Orbene tale attività può costituire una violazione del diritto statale (es. violazione della privacy), ma difficilmente del diritto internazionale generale. La questione dovrebbe quindi essere affrontata sotto il profilo dei diritti umani e il diritto alla riservatezza della corrispondenza ed alla libertà da illegittime interferenze nella propria vita privata.
Esempi già esistono. Nel quadro del Consiglio d’Europa è stata stipulata nel 1981 una Convenzione sulla protezione dei dati personali e della privacy ed un protocollo addizionale nel 2001. Guidelines sono state adottate nell’ambito dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico). L’elenco potrebbe continuare. Un discorso codificatorio andrebbe quindi affrontato a livello universale sotto il profilo della tutela della privacy come diritto dell’uomo.
In conclusione, solo lo spionaggio in tempo di guerra ha una precisa regolamentazione in diritto internazionale. Lo spionaggio in tempo di pace non è invece oggetto di una autonoma disciplina. Vi sono tuttavia norme ad hoc che hanno per oggetto settori ben determinati e riguardano la trasgressione della sovranità territoriale o la violazione delle relazioni diplomatiche.
Altre attività non ricadono sotto la previsione di alcuna proibizione come quelle condotte nello spazio extra-atmosferico (i c.d. satelliti-spia) o in alto mare. Per tutte queste attività non è realistico pensare ad una disciplina unitaria. Resta invece possibile pensare ad una regolamentazione dell’acquisizione illegale di dati nella rete, dimensionata sotto il profilo della tutela della privacy come diritto dell’uomo. In tale contesto sono sempre possibili (realistiche) eccezioni a tutela della sicurezza e della sovranità degli stati.
Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (LUISS Guido Carli) e Consigliere scientifico dell'Istituto Affari Internazionali.
A tali quesiti è stata in parte già data risposta. Per quanto riguarda l’Italia, bene ha fatto il nostro governo a non concedere a Snowden l’asilo, poiché gli Stati Uniti non sono certamente un paese che non assicura le libertà democratiche, condizione necessaria per l’applicazione dell’art. 10, comma 3 della nostra Costituzione per la concessione. Quanto al diniego del transito attraverso lo spazio aereo nazionale, è da ricordare che obblighi sussistono per l’aviazione civile secondo la Convenzione di Chicago del 1944, ma non per gli aerei di stato, quale quello su cui viaggiava il presidente boliviano.
Spionaggio tra amici
L’aspetto più inquietante dell’affare Snowden riguarda lo spionaggio tra alleati, che poi è a senso unico in quanto realizzato dalle varie “agenzie” americane nei confronti degli alleati europei, Italia inclusa, e delle istituzioni dell’Unione europea (Ue), sollevando le reazioni particolarmente indignate del Parlamento europeo, che il 4 luglio ha adottato una risoluzione di condanna e ordinato un’inchiesta. Prendendo spunto dall’affare Snowden si è chiesto se esistano regole in materia, che dovrebbero riguardare tutti gli stati, non solo i potenziali nemici, ma anche gli alleati.
In questo secondo caso la trasgressione di regole sarebbe aggravata dalla violazione del rapporto di fiducia, che dovrebbe vigere tra potenze amiche. Né può essere consolatorio l’affermare che “così fan tutti” e che lo spionaggio, o come oggi si chiama “attività di intelligence” per nobilitarlo, è sempre esistito. Addirittura si invocano regole internazionali per disciplinarlo. Ma si tratta di esternazioni di chi non conosce 36bene i rapporti che regolano la comunità internazionale, poiché a nessuno è mai venuto in mente la stipulazione di una convenzione internazionale sullo spionaggio.
In realtà talune regole esistono, ma vanno ricavate da altri settori del diritto internazionale.
Spionaggio in tempo di guerra
In primo luogo occorre distinguere tra lo spionaggio in tempo di guerra e in tempo di pace.
Lo spionaggio in tempo di guerra è l’unico oggetto di una disciplina ad hoc. Tanto il Regolamento annesso alla IV Convenzione dell’Aja del 1907 quanto il primo Protocollo addizionale alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 disciplinano il fenomeno, definendo “la spia” che, in caso di cattura, non ha diritto allo status di prigioniero di guerra ed è soggetta alla potestà repressiva dello stato che la cattura. Lo stato, per cui la spia agisce, non commette però alcun illecito internazionale. Si tratta di regole fatte proprie dalla consuetudine internazionale.
Spionaggio in tempo di pace
Diversa è invece la disciplina dello spionaggio in tempo di pace, estremamente frammentaria e non oggetto di una precisa regolamentazione.
Talune norme possono essere ricavate dalla Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 1961. Si prescinde qui dall’ipotesi dell’attività di intelligence condotta dall’agente diplomatico o dal personale della missione (ad es. addetto militare). Piuttosto si faccia il caso dello spionaggio ai danni della missione diplomatica straniera ad opera dello stato ospite, mediante l’introduzione di congegni elettronici nei locali della missione. È quanto avrebbero fatto i servizi americani nei confronti dell’ambasciata italiana a Washington (e delle sedi diplomatiche di altri governi alleati), secondo le rivelazioni di Snowden, poi smentite dalle nostre autorità (almeno per ora).
In questo caso vi sarebbe una flagrante violazione dell’art. 22 della Convenzione di Vienna, secondo cui i locali della missione sono inviolabili. Ma vi è di più. Probabilmente lo spionaggio ai danni della missione diplomatica realizzato senza intrusione di congegni nei locali della missione, ma con apparecchiature esterne potrebbe realizzare una violazione della “pace della missione” ed un’offesa alla sua “dignità”, anche queste vietate dallo stesso articolo della Convenzione di Vienna.
Lo stato in violazione del diritto internazionale dovrebbe riparare l’illecito e addirittura dare “garanzie e assicurazioni di non ripetizione”! Si aprirebbe addirittura la strada di un ricorso alla Corte internazionale di giustizia nei confronti di quegli stati che, come gli Stati Uniti, hanno ratificato il Protocollo facoltativo alla Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche.
Quanto affermato nei confronti dello spionaggio ai danni delle missioni diplomatiche, vale in linea di principio anche per le organizzazioni internazionali, ma una sua precisa configurazione dipende dall’accordo di sede stipulato con l’organizzazione internazionale dallo stato ospite.
A parte la questione delle missioni diplomatiche, lo spionaggio in tempo di pace costituisce una violazione della sovranità territoriale quando l’agente straniero penetri in territorio altrui ed operi clandestinamente senza il consenso dello stato territoriale. In tal caso egli non può invocare nessuna immunità dalla giustizia locale, tranne che sia un agente diplomatico.
Nemmeno è ammissibile l’osservazione aerea tornata in auge con l’uso di droni, in assenza di una disposizione permissiva stabilita nei trattati sul controllo degli armamenti. Né costituisce un esempio il Trattato sui cieli aperti del 1992, entrato in vigore 10 anni dopo, che autorizza gli stati parte a sorvolare il territorio di un’altra parte allo scopo di condurre voli di osservazione.
L’acquisizione di dati effettuata a partire da spazi non soggetti alla sovranità di alcuno è libera. Così non costituisce violazione alcuna dell’altrui sovranità territoriale l’osservazione satellitare oppure l’acquisizione di informazioni sensibili operata da navi in alto mare.
Cyberspionaggio
Ma l’aspetto più inquietante delle rilevazioni di Snowden riguarda l’acquisizione di dati che il progresso tecnologico rende possibili senza la dislocazione di agenti in territorio altrui e quindi senza violare fisicamente la sovranità territoriale di uno stato straniero. La cosa non è nuova. Già nel 1988 un rapporto del Parlamento europeo sottolineava la quantità di dati captati dagli Stati Uniti. Quindi molti anni prima di Echelon.
La manipolazione tecnologica può essere usata per scopi militari al fine di infliggere danni al nemico (ad es. l’accecamento delle sue difese) e rientra nel concetto di cyber war. Ma può essere usata anche per acquisire informazioni sensibili di natura militare oppure per combattere la criminalità o il terrorismo internazionale.
Non è chiaro o non è stato ancora definitivamente acquisito quanto e come i grandi gestori delle reti collaborino con le organizzazioni di intelligence. Orbene tale attività può costituire una violazione del diritto statale (es. violazione della privacy), ma difficilmente del diritto internazionale generale. La questione dovrebbe quindi essere affrontata sotto il profilo dei diritti umani e il diritto alla riservatezza della corrispondenza ed alla libertà da illegittime interferenze nella propria vita privata.
Esempi già esistono. Nel quadro del Consiglio d’Europa è stata stipulata nel 1981 una Convenzione sulla protezione dei dati personali e della privacy ed un protocollo addizionale nel 2001. Guidelines sono state adottate nell’ambito dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico). L’elenco potrebbe continuare. Un discorso codificatorio andrebbe quindi affrontato a livello universale sotto il profilo della tutela della privacy come diritto dell’uomo.
In conclusione, solo lo spionaggio in tempo di guerra ha una precisa regolamentazione in diritto internazionale. Lo spionaggio in tempo di pace non è invece oggetto di una autonoma disciplina. Vi sono tuttavia norme ad hoc che hanno per oggetto settori ben determinati e riguardano la trasgressione della sovranità territoriale o la violazione delle relazioni diplomatiche.
Altre attività non ricadono sotto la previsione di alcuna proibizione come quelle condotte nello spazio extra-atmosferico (i c.d. satelliti-spia) o in alto mare. Per tutte queste attività non è realistico pensare ad una disciplina unitaria. Resta invece possibile pensare ad una regolamentazione dell’acquisizione illegale di dati nella rete, dimensionata sotto il profilo della tutela della privacy come diritto dell’uomo. In tale contesto sono sempre possibili (realistiche) eccezioni a tutela della sicurezza e della sovranità degli stati.
Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (LUISS Guido Carli) e Consigliere scientifico dell'Istituto Affari Internazionali.
Fonte: Istituto Affari Internazionali.
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