Il tarlo delle diseguaglianze Sicurezza e ricchezza: ridurre lo spread Laura Mirachian 01/08/2015 |
Alle prese con la crisi greca, le complicanze geopolitiche di quella ucraina, l’avanzata dell’Isis in Medio Oriente, in Nord Africa, in Africa, le contaminazioni jihadiste nei nostri Paesi e il terrorismo di ritorno, impegnati a scrutarne cause e motivazioni, a individuarne strategie di risposta, ci siamo dimenticati di Zuccotti Park, di quel movimento “99%” animato solo ieri dai giovani americani, e rapidamente diffusosi per contagio altrove, che pare essersi eclissato scivolando nei sotterranei delle nostre coscienze.
Eppure, si potrebbe individuare un filo conduttore tra fenomeni epocali, pur così diversi. Ricordiamo l’episodio del giovane tunisino che scatenò i sovvertimenti arabi? E possiamo escludere questo perverso fenomeno nel valutare le masse di migranti che approdano sulle nostre coste?
L’America minacciata dai plutocrati
Forse i ragazzi di Zuccotti Park, che volevano occupare Wall Street, hanno trovato lavoro, ora che la disoccupazione negli Usa è scesa a minimi storici, forse sperano nell’aumento dei salari per la classe media di cui parla Obama, forse ha prevalso il ripiegamento dalla dimensione collettiva a quella personale o sono stati intimoriti dagli sgomberi di polizia, forse sono semplicemente pronti a riorganizzarsi alla prossima crisi.
Nel frattempo, in un’America che non cessa di rivelarsi un fertile terreno di pensiero, è da quell’1% incriminato, da quella che è stata definita la ‘banda dei miliardari’, che emergono voci di allarme. Il sistema non è sostenibile, si dichiara, non durerà. Se non vogliamo che il problema venga risolto con i metodi tradizionali - guerre o rivolte - occorre restaurare un’economia inclusiva.
E se la parlamentare canadese Christa Freeland scrive, già nel 2012, il plateale “Plutocrats: the Rise of the new global super-rich and the Fall of everyoneelse”, oggi più discretamente si organizzano simposi sul capitalismo inclusivo, discutendo su come riorientare i capitali dalla rendita finanziaria a breve termine ad investimenti produttivi di lungo termine a beneficio dei ceti sfavoriti, e su come ridistribuire la ricchezza, ivi incluso aumentando salari minimie donazioni umanitarie.
L’obiettivo di questi simposi è ampliare la platea dei consumatori per aumentare vendite e profitti oppure prevenire disordini sociali? O semplicemente procedere a limitati e imprescindibili correttivi per evitare riforme più profonde del sistema economico e di quello finanziario ?
Per la sicurezza, salvare i ceti medi e allargarli
In ogni caso, parrebbe farsi strada in America la consapevolezza che, ove non si ponga rimedio all’allargarsi delle diseguaglianze, la tenuta sociale rischierebbe di diventare problematica.
Che uno scenario in cui il 10% della popolazione controlla 3/4 della ricchezza nazionale non solo è iniquo ma non è funzionale al sistema stesso e comporta alti rischi sociali.
Impietose statistiche federali dimostrano l’ovvio, e cioè che la povertà finisce per produrre criminalità, il 60% dei detenuti sono ispanici o neri, e 2/3 degli afro-americani nati negli anni ’70 hanno un qualche passato criminale. “The insecure American” titola un recente editoriale di Paul Krugman con riferimento ai poveri, vecchi e nuovi, e alle falle del sistema di sicurezza sociale americano.
Incentivare gli investimenti, accrescere il potere d’acquisto dei ceti medi, e non ultimo il sostegno sociale ai meno abbienti parrebbero risposte ampiamente condivise. Anche se sono in molti a pensare, specie tra le fila repubblicane, che la povertà sia solo frutto di pigrizia e di estraneità al lavoro, che una politica di sostegno sociale non farebbe che alimentarle, e che occorrerebbe invece restringere le maglie riducendo al contempo le tasse ai cosiddetti ‘job creators’. Tutti argomenti destinati a farsi strada, man mano che si entrerà nel vivo della campagna elettorale.
Ma non sono solo partiti e settori imprenditoriali a parlarne. E non solo in America. In Italia, una recente Relazione dell’Inps sottolinea che la crisi del 2008-2014 ha colpito soprattutto le fasce sociali più deboli e che il 10% più povero della popolazione ha visto ridursi il proprio reddito di oltre 25% mentre quelle più ricche hanno subito un calo massimo del 5%. Le diseguaglianze, anche da noi, si sono allargate, scaricandosi, tra l’altro, in un’inedita “difesa dei confini” dalle masse di immigrati.
E l’Fmi scopre le “barchette”
Il tema delle diseguaglianze sociali è approdato sui tavoli internazionali, in particolare nel contesto dei tre appuntamenti di Addis Abeba (luglio)-New York (settembre)-Parigi (dicembre) dedicati allo sviluppo e ai cambiamenti climatici.
Scontando la retorica che accompagna di norma queste occasioni, nonché il linguaggio sfumato che distingue le sedi multilaterali che lavorano per consenso, ci si attende che ad una diagnosi condivisa facciano seguito raccomandazioni chiare in termini di assunzione di responsabilità e attuazione delle deliberazioni.
L’argomento ha del resto un’autorevole portavoce nell’Fmi di Christine Lagarde. Pur riconoscendo che lo scarto tra economie avanzate ed economie emergenti/in via di sviluppo si è notevolmente ridimensionato e che le seconde hanno conseguito un miglior grado di integrazione nell’economia globale, Lagarde registra che le diseguaglianze sono enormi sia tra singoli Paesi sia all’interno di essi, e tendono a crescere, in assenza di correttivi.
Nei Paesi avanzati l’1% della popolazione detiene il 10% della ricchezza, e a livello mondiale la ricchezza dell’1% supererà nel 2016 quella del restante 99%. “Lifting the small boats”, osserva Lagarde, non è solo un imperativo morale, fa bene all’economia mondiale.
Seguono le ricette che contribuirebbero ad economie più solide e a un mondo più sicuro: in larga sintesi, sostegno ai ceti medi e a quelli più disagiati, maggiore equità dei sistemi fiscali, efficienza ed efficacia della spesa pubblica, maggiore partecipazione delle donne al sistema produttivo, educazione dei giovani e meno giovani che assicuri loro accesso alle nuove tecnologie e al lavoro, e urgente considerazione all’ambiente.
Se anche dai vertici di uno dei pilastri del sistema di sicurezza del dopo-guerra, certo lontano da logiche che non siano di buon funzionamento del sistema, emergono tali raccomandazioni, significa che gli squilibri prodottisi in questi anni hanno raggiunto livelli inquietanti per il sistema stesso.
L’economia delle diseguaglianze e dell’esclusione è al centro dell’Enciclica di Papa Francesco. Un testo mirabile per credenti e non credenti, che parlando dei cambiamenti climatici ne riconduce le responsabilità alle storture di un impianto che crea spreco e ingiustizia, votato alla ricchezza dei pochi anziché alla dignità umana di tutti, basato sul trionfo cieco di tecnologia e finanza, e che “colpisce non solo gli individui ma Paesi interi”.
Un modello distributivo in cui “una minoranza si crede in diritto di consumare in una proporzione che sarebbe impossibile generalizzare”: si impone una ridefinizione del progresso, un cambiamento del modello di sviluppo globale.
Parole inequivocabili. Sulle quali i ragazzi di Zuccotti Park non potrebbero non convenire. E che, se ascoltate, risveglierebbero le coscienze e contribuirebbero a una migliore sicurezza nel pianeta, anche creando condizioni più favorevoli alla distensione nelle aree devastate da crisi regionali. E del resto, rileggiamo la Dichiarazione universale dei Diritti umani del lontano 1948.
Laura Mirachian, Ambasciatore, già Rappresentante Permanente presso l’Onu, Ginevra.
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L’America minacciata dai plutocrati
Forse i ragazzi di Zuccotti Park, che volevano occupare Wall Street, hanno trovato lavoro, ora che la disoccupazione negli Usa è scesa a minimi storici, forse sperano nell’aumento dei salari per la classe media di cui parla Obama, forse ha prevalso il ripiegamento dalla dimensione collettiva a quella personale o sono stati intimoriti dagli sgomberi di polizia, forse sono semplicemente pronti a riorganizzarsi alla prossima crisi.
Nel frattempo, in un’America che non cessa di rivelarsi un fertile terreno di pensiero, è da quell’1% incriminato, da quella che è stata definita la ‘banda dei miliardari’, che emergono voci di allarme. Il sistema non è sostenibile, si dichiara, non durerà. Se non vogliamo che il problema venga risolto con i metodi tradizionali - guerre o rivolte - occorre restaurare un’economia inclusiva.
E se la parlamentare canadese Christa Freeland scrive, già nel 2012, il plateale “Plutocrats: the Rise of the new global super-rich and the Fall of everyoneelse”, oggi più discretamente si organizzano simposi sul capitalismo inclusivo, discutendo su come riorientare i capitali dalla rendita finanziaria a breve termine ad investimenti produttivi di lungo termine a beneficio dei ceti sfavoriti, e su come ridistribuire la ricchezza, ivi incluso aumentando salari minimie donazioni umanitarie.
L’obiettivo di questi simposi è ampliare la platea dei consumatori per aumentare vendite e profitti oppure prevenire disordini sociali? O semplicemente procedere a limitati e imprescindibili correttivi per evitare riforme più profonde del sistema economico e di quello finanziario ?
Per la sicurezza, salvare i ceti medi e allargarli
In ogni caso, parrebbe farsi strada in America la consapevolezza che, ove non si ponga rimedio all’allargarsi delle diseguaglianze, la tenuta sociale rischierebbe di diventare problematica.
Che uno scenario in cui il 10% della popolazione controlla 3/4 della ricchezza nazionale non solo è iniquo ma non è funzionale al sistema stesso e comporta alti rischi sociali.
Impietose statistiche federali dimostrano l’ovvio, e cioè che la povertà finisce per produrre criminalità, il 60% dei detenuti sono ispanici o neri, e 2/3 degli afro-americani nati negli anni ’70 hanno un qualche passato criminale. “The insecure American” titola un recente editoriale di Paul Krugman con riferimento ai poveri, vecchi e nuovi, e alle falle del sistema di sicurezza sociale americano.
Incentivare gli investimenti, accrescere il potere d’acquisto dei ceti medi, e non ultimo il sostegno sociale ai meno abbienti parrebbero risposte ampiamente condivise. Anche se sono in molti a pensare, specie tra le fila repubblicane, che la povertà sia solo frutto di pigrizia e di estraneità al lavoro, che una politica di sostegno sociale non farebbe che alimentarle, e che occorrerebbe invece restringere le maglie riducendo al contempo le tasse ai cosiddetti ‘job creators’. Tutti argomenti destinati a farsi strada, man mano che si entrerà nel vivo della campagna elettorale.
Ma non sono solo partiti e settori imprenditoriali a parlarne. E non solo in America. In Italia, una recente Relazione dell’Inps sottolinea che la crisi del 2008-2014 ha colpito soprattutto le fasce sociali più deboli e che il 10% più povero della popolazione ha visto ridursi il proprio reddito di oltre 25% mentre quelle più ricche hanno subito un calo massimo del 5%. Le diseguaglianze, anche da noi, si sono allargate, scaricandosi, tra l’altro, in un’inedita “difesa dei confini” dalle masse di immigrati.
E l’Fmi scopre le “barchette”
Il tema delle diseguaglianze sociali è approdato sui tavoli internazionali, in particolare nel contesto dei tre appuntamenti di Addis Abeba (luglio)-New York (settembre)-Parigi (dicembre) dedicati allo sviluppo e ai cambiamenti climatici.
Scontando la retorica che accompagna di norma queste occasioni, nonché il linguaggio sfumato che distingue le sedi multilaterali che lavorano per consenso, ci si attende che ad una diagnosi condivisa facciano seguito raccomandazioni chiare in termini di assunzione di responsabilità e attuazione delle deliberazioni.
L’argomento ha del resto un’autorevole portavoce nell’Fmi di Christine Lagarde. Pur riconoscendo che lo scarto tra economie avanzate ed economie emergenti/in via di sviluppo si è notevolmente ridimensionato e che le seconde hanno conseguito un miglior grado di integrazione nell’economia globale, Lagarde registra che le diseguaglianze sono enormi sia tra singoli Paesi sia all’interno di essi, e tendono a crescere, in assenza di correttivi.
Nei Paesi avanzati l’1% della popolazione detiene il 10% della ricchezza, e a livello mondiale la ricchezza dell’1% supererà nel 2016 quella del restante 99%. “Lifting the small boats”, osserva Lagarde, non è solo un imperativo morale, fa bene all’economia mondiale.
Seguono le ricette che contribuirebbero ad economie più solide e a un mondo più sicuro: in larga sintesi, sostegno ai ceti medi e a quelli più disagiati, maggiore equità dei sistemi fiscali, efficienza ed efficacia della spesa pubblica, maggiore partecipazione delle donne al sistema produttivo, educazione dei giovani e meno giovani che assicuri loro accesso alle nuove tecnologie e al lavoro, e urgente considerazione all’ambiente.
Se anche dai vertici di uno dei pilastri del sistema di sicurezza del dopo-guerra, certo lontano da logiche che non siano di buon funzionamento del sistema, emergono tali raccomandazioni, significa che gli squilibri prodottisi in questi anni hanno raggiunto livelli inquietanti per il sistema stesso.
L’economia delle diseguaglianze e dell’esclusione è al centro dell’Enciclica di Papa Francesco. Un testo mirabile per credenti e non credenti, che parlando dei cambiamenti climatici ne riconduce le responsabilità alle storture di un impianto che crea spreco e ingiustizia, votato alla ricchezza dei pochi anziché alla dignità umana di tutti, basato sul trionfo cieco di tecnologia e finanza, e che “colpisce non solo gli individui ma Paesi interi”.
Un modello distributivo in cui “una minoranza si crede in diritto di consumare in una proporzione che sarebbe impossibile generalizzare”: si impone una ridefinizione del progresso, un cambiamento del modello di sviluppo globale.
Parole inequivocabili. Sulle quali i ragazzi di Zuccotti Park non potrebbero non convenire. E che, se ascoltate, risveglierebbero le coscienze e contribuirebbero a una migliore sicurezza nel pianeta, anche creando condizioni più favorevoli alla distensione nelle aree devastate da crisi regionali. E del resto, rileggiamo la Dichiarazione universale dei Diritti umani del lontano 1948.
Laura Mirachian, Ambasciatore, già Rappresentante Permanente presso l’Onu, Ginevra.