Tra
il 1946 e
il 1958 gli
Stati Uniti provocarono decine di esplosioni nucleari nell'atollo
di Bikini. La guerra fredda
era ormai inequivocabilmente cominciata e i sovietici non tardarono a
compensare il gap che li separava dagli americani. Nel 1949 l’URSS
sperimentò la sua prima bomba atomica nel poligono siberiano nucleare di Semipalatinsk, nei pressi
della città chiusa di Kurchatov.
Inizia a questo punto una corsa al rilancio,
sul piano tecnologico, che andrà avanti, ufficialmente, fino alla caduta del
muro di Berlino, ma che in realtà continua tutt’ora. Nell'immediato dopoguerra
l'arma atomica fu acquisita da tutte le principali potenze mondiali (Regno
Unito - 1952, Francia - 1960, Cina - 1964), inoltre le armi nucleari divennero
sempre più complesse dando origine ad una varietà di ordigni.
Ma
la vera “rivoluzione” si sarebbe avuta coniugando il potenziale distruttivo
della bomba all’idrogeno (bomba H, o “termonucleare”) all’invulnerabilità di un
missile balistico, il quale avrebbe aggirato qualunque difesa contro-aerea
colpendo inevitabilmente il bersaglio, con danni pressoché incalcolabili,
determinando quindi una distinzione “qualitativa” tra armi nucleari e armi
convenzionali.
Ma
una prima avvisaglia sui potenziali pericoli circa l'impiego di armi nucleari c'era già stata durante la guerra di Corea,
quando il generale MacArthur aveva
cercato inutilmente di far accettare la sua proposta di utilizzare l'atomica
sulla Cina. Intanto nuove
armi nucleari, come la temuta bomba
all'idrogeno, erano diventate
realtà; l'Unione Sovietica nell’agosto del 1953, fece esplodere per prima
nell’atmosfera due bombe all’idrogeno,di potenza limitata a 400 kilotoni. Gli
Stati Uniti fra il febbraio ed il maggio 1954 effettuarono sei esplosioni
sperimentali di bombe all’idrogeno già provate in laboratorio nel 1952, la prima di queste aveva
una potenza di 15 megatoni.[1]
I successivi avvenimenti
geopolitici, culminati con l'episodio della Baia dei Porci (1961), in cui un gruppo di
esuli cubani finanziati dalla CIA tentò
di invadere l'isola di Cuba fecero precipitare i rapporti
tra le superpotenze USA e URSS, tanto che il presidente John
Fitzgerald Kennedy,
in un discorso alla nazione americana del 6 ottobre 1961,
raccomandò vivamente alla popolazione di procedere celermente alla costruzione
di rifugi
antiatomici, non
potendo lo Stato farsi carico della salvezza e della protezione di ogni singolo
cittadino. Egli stesso ebbe il proprio bunker personale, localizzato
a Peanut
Island, nella
contea di Palm
Beach in Florida. Sempre nello stesso anno
l'URSS, peraltro, aveva fatto esplodere una bomba all'idrogeno con un
potenziale superiore di quasi cinquemila volte all'atomica sganciata su
Hiroshima.
2.2. Armi nucleari tattiche e guerra nucleare limitata
La mancanza di volontà di
utilizzare armi nucleari strategiche (ovvero con effetti distruttivi pressoché
incalcolabili) in caso di attacco sovietico contro gli alleati europei,
combinata alla necessità di rassicurare comunque questi ultimi sulla
disponibilità degli americani a far ricorso al proprio arsenale nucleare, qualora
il loro territorio fosse stato attaccato, spinse gli Stati Uniti ad elaborare
armi e strategie per una guerra nucleare limitata. È in quest’ottica che
vennero sviluppate le armi nucleari tattiche (o “da teatro”, o “da
campo di battaglia”); armi a corto raggio dal potenziale distruttivo più
contenuto rispetto a quelle strategiche. La seconda metà degli anni ’50 vide
l’ascesa e subito dopo il declino (almeno sul piano concettuale) di questo
orientamento: il valore eminentemente difensivo attribuito inizialmente a
queste armi, che sarebbero state utilizzate contro i contingenti nemici
prossimi ad invadere i Paesi alleati, venne successivamente messo in
discussione dalla considerazione che proprio il nemico avrebbe potuto
utilizzarle invece in maniera offensiva per aprire la strada alle sue truppe;
inoltre l’argomento secondo il quale il ridotto potenziale distruttivo di
queste armi le avrebbe rese idonee ad essere utilizzate senza eccessivi danni
per i civili apparve subito discutibile. Il potenziale distruttivo e
soprattutto gli effetti ritardati erano troppo devastanti perché potessero
essere utilizzate come armi convenzionali “un po’ più potenti”, in particolare
nelle aree densamente popolate dell’Europa occidentale coinvolte da una
eventuale invasione sovietica. La distinzione tra armi nucleari strategiche e
tattiche, se pure interessante sul piano teorico, si rivelava di fatto
irrealizzabile sul piano pratico. Le armi tattiche tuttavia continuarono ad
essere protagoniste del dibattito nucleare per i decenni successivi
sostanzialmente per due motivi: 1) anche i sovietici avevano sviluppato un loro
programma di armi nucleari tattiche, quindi, non fosse altro che per ragioni di
equilibrio, era opportuno mantenerle; 2) rappresentavano comunque la garanzia, per
gli alleati europei, dell’intenzione degli Stati Uniti a far ricorso al proprio
arsenale nucleare per difenderli.
Il problema che a questo punto si
presentò agli strateghi nucleari per
tutti gli anni ’50, fu il seguente: se un attacco con armi nucleari fosse effettivamente
accettabile qualora in grado di distruggere le capacità di rappresaglia
nucleare del nemico; cosa succede se ciò non avviene e ci si espone alla
rappresaglia potenzialmente devastante di quest'ultimo? Ecco che l’ipotesi
dell’attacco preventivo, volto a distruggere a terra le forze di rappresaglia
nemiche, non appare più attuabile. La
rincorsa, da parte di entrambe le super-potenze, al raggiungimento di una
supremazia nelle armi di “primo colpo”, accompagnata dalla paura reciproca che
“l’altra” potesse raggiungerla per prima, rendevano pericolosamente aleatorio
il controllo effettivo di un confronto nucleare a distanza. In caso di
squilibrio a vantaggio di una delle due parti, il rischio di utilizzo del proprio
arsenale nucleare di “primo colpo” sarebbe diventato concreto. La super-potenza
che avesse raggiunto la supremazia avrebbe potuto sfruttare il vantaggio, quella
rimasta indietro avrebbe cercato di “bruciare sul tempo” il nemico con un
attacco preventivo, impedendogli così di avvalersi del vantaggio raggiunto. Che
questa logica, molto cinica, potesse condurre i due contendenti, “loro
malgrado”, ad uno scontro nucleare, fece emergere prepotentemente l’importanza
del concetto di stabilità e di stallo nucleare, in virtù del
quale entrambe le potenze dovevano possedere armi di rappresaglia
invulnerabili. In sostanza, il possesso di armi di rappresaglia invulnerabili
costituiva paradossalmente la garanzia di sicurezza e, pertanto,
“tranquillizzare” il nemico circa l’invulnerabilità del suo arsenale di
rappresaglia nucleare era importante tanto quanto assicurarsi l’invulnerabilità
del proprio arsenale (un nemico “tranquillo” è un nemico meno pericoloso).
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