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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

giovedì 3 luglio 2014

Ucraina: l'accordo con la UE. Quanto ci costa

Politica Ue di vicinato
Il prezzo dell’Accordo di Associazione
Giovanna De Maio
02/07/2014
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In una cornice politica tutt’altro che distesa e con gli scontri ancora in corso sul confine orientale, l’Ucraina ha firmato la parte economica dell’Accordo di associazione con l’Unione europea, il cosiddetto Dcfta (Deep and Comprehensive Free Trade Area), che va a completare il capitolo sul dialogo politico e la cooperazione siglato a marzo dal premier Arseniy Yatsenyuk.

Accanto alla cooperazione in ambito legislativo e all’impegno a lavorare per la libera circolazione delle persone, figurano anche le aree di sicurezza, non-proliferazione e prevenzione dei conflitti, anche se né l’Accordo di Associazione né il Dcfta contengono alcuna previsione sul futuro non-allineamento o sulla futura neutralità ucraina nella sfera della sicurezza.

Quali sono i vantaggi di questo tanto agognato accordo di associazione? È davvero una partita di tiro alla fune quella che si sta giocando a Kiev? Per nessuno delle parti in causa, quella che si sta scrivendo sembra una storia a lieto fine.

Zona di libero scambio
La creazione di una zona di libero scambio tra l’Unione europea e l’Ucraina costituisce la parte più significativa dell’accordo di associazione e si sviluppa sulla base delle clausole che regolano la membership ucraina nell’Organizzazione mondiale del Commercio (Wto).

Il commercio estero ucraino si dirige principalmente in due direzioni: a est, l’Unione doganale, di cui fanno parte Russia, Bielorussia e Kazakhstan, e a ovest l’Unione europea, che riceve circa il 28% delle esportazioni ucraine.

Anche se attraverso il sistema generale delle preferenze in vigore dal 1993, le esportazioni ucraine erano già state liberalizzate in buona parte, con l’introduzione del Dcfta i prodotti ucraini quali materiali ferrosi e materie prime circoleranno ancora più facilmente.

Sul mercato ucraino arriveranno beni ad alto valore commerciale come macchinari, mezzi di trasporto, disponibili a un prezzo più basso, ma è difficile pensare che i prodotti agricoli potranno accedere al già saturo mercato europeo.

Al contrario secondo uno studio della Berlin Economics, la partecipazione dell’Ucraina all’Unione doganale avrebbe vantaggi molto limitati dato che l’Ucraina gode già del libero scambio tra i paesi della Comunità di Stati Indipendenti.

Sulla strada della stabilizzazione ucraina, però, non c’è solo la scelta di un’integrazione regionale, ma si incontrano anche difficoltà più profonde radicate nella struttura industriale del Paese.

Colossi sovietici
Il ruolo di Mosca non si esaurisce nelle concessioni speciali sul gas e nemmeno nella misura dei 5 fino ai 10 miliardi di dollari l’anno per il sostegno di Kiev.

In Ucraina soprattutto nella parte orientale, l’industria manifatturiera si alimenta soltanto grazie alle commesse russe: a causa del basso contenuto tecnologico e della sostanziale inefficienza delle strutture di produzione, che non potrebbe assolutamente rivolgersi a nessun altro mercato.

Questi stabilimenti sono fioriti in epoca sovietica, quando l’industria ucraina si inseriva in un contesto economico unico e ricco di fonti energetiche, le cui rendite (dal petrolio e dal gas) ne garantivano la sopravvivenza. Per fare un esempio, la produzione bellica ucraina contribuiva alla difesa sovietica nella misura di un quarto rispetto a quella russa, ma era concentrata nei centri di Kiev, Kharkov, Dnepropetrovsk e Nikolayev.

Non stupisce, dunque, che il presidente russo Vladimir Putin, abbia recentemente dichiarato la necessità di intensificare la produzione bellica in loco e ridurre le importazioni. Attualmente, il brusco calo della domanda russa sta costando all’Ucraina circa tre miliardi di dollari l’anno.

Chi rompe, paga
Nell’indossare i panni di “difensore dell’Ucraina” l’Occidente deve chiedersi se è disposto a pagare o a riparare più di quanto la Russia sia in grado di distruggere o danneggiare.

Finora il fondo monetario internazionale ha già stanziato 17 miliardi di dollari, altrettanto ha fatto l’Ue. Appare insostenibile l’ipotesi che l’Fmi si impegni a finanziare queste imprese inefficienti e a coprire le perdite dei posti di lavoro. Secondo alcune stime, si tratterebbe di circa 2 trilioni di euro in 20 anni.

Perdere le manifatture ucraine per la Russia non sarebbe un grosso problema, dato che per ogni industria ce n’è una gemella sul territorio al di là degli Urali. Quello che la Russia non può permettersi, infatti, non è “perdere” l’Ucraina al tiro alla fune, ma “vincerla”: non sarebbe in grado di finanziare il Paese se questo dovesse venir tagliato fuori dal mercato occidentale.

La verità dunque, è che la sopravvivenza dell’Ucraina è inimmaginabile senza un impegno serio da parte di Mosca e di Bruxelles. Se si smetterà di giocare alla guerra fredda e si cercherà di fare gli interessi del Paese, si dovrà però essere disposti ad accettare una finlandizzazione dell’Ucraina, perché solo garantendo la neutralità di questo Paese-fratello, la Russia potrà continuare a tendere la mano, e con essa i rubli.

Giovanna De Maio è stata stagista per la comunicazione presso lo IAI (Twitter: @Giovgenius).
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Europa. il nuovo vertice

Nuova Commissione europea
Vittoria di Juncker a propulsione tedesca
Lorenzo Vai
03/07/2014
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Con la nomina di Jean-Claude Juncker alla presidenza della Commissione europea, i capi di Stato e di governo dei paesi Ue hanno legittimato un collegamento stretto tra il voto per il Parlamento europeo e la scelta del capo dell’esecutivo di Bruxelles, come lo IAI e altri centri di ricerca europei avevano auspicato già cinque anni fa.

Si continua a discutere dei benefici di tale innovazione per la democraticità del sistema europeo, o dei suoi rischi per l’equilibrio interistituzionale, ma intanto è possibile fare alcune considerazioni sulle dinamiche politiche che essa ha innescato.

Novità per la democrazia europea
È stato sicuramente stabilito un precedente: Juncker, candidato (Spitzencandidat) del Partito polare europeo (Ppe), riconfermatosi primo partito alle recenti elezioni, è stato scelto come il candidato “naturale” alla presidenza della Commissione da 26 governi su 28 (hanno votato contro solo il Regno Unito e l’Ungheria).

Una decisione in linea con l’interpretazione che quasi tutti i partiti politici europei hanno dato delle nuove (ancorché un po’ sibilline) disposizioni del Trattato di Lisbona sulla procedura di nomina del presidente della Commissione. E in effetti la svolta decisiva è stata la decisione delle sei principali formazioni politiche europee di presentare, alle elezioni del parlamento europeo, propri candidati per la presidenza della Commissione.

Va peraltro ricordato che nelle prime settimane post-voto la nomina di Juncker non godeva del favore dei pronostici, soprattutto di quelli dei principali media nazionali ed europei, tutti in attesa di un outsider scelto a porte chiuse, come da prassi decennale. Questa volta però le cose sono andate diversamente.

Il percorso in salita di Juncker
A inizio giugno, la strada di Juncker sembrava tutta in salita. Il suo nome non piaceva agli inglesi, ai cechi, agli olandesi e agli svedesi, timorosi sia di legittimare un processo di nomina estraneo alle logiche intergovernative, sia di scegliere un politico tacciato di perseguire un federalismo d’altri tempi.

In Francia, il presidente François Hollande maturava la segreta speranza di poter eleggere un socialista (francese) alla presidenza della Commissione, mentre in Italia il premier Matteo Renzi prendeva tempo, cercando rassicurazioni su una maggior flessibilità di Bruxelles indipendentemente dai nomi in discussione.

E poi c’era Angela Merkel, che dopo i dubbi sull’elezione “diretta” del presidente della commissione (“nessun automatismo tra elezioni europee e nomine” dichiarò la Cancelliera nell’ottobre 2013), ha esitato non poco prima di dare pieno sostegno a Juncker (sembra sia stata la stessa Merkel ad invocare sottovoce, ma con scarso successo, il nome di Christine Lagarde).

Alla fine, il migliore alleato di Juncker nella corsa alla Commissione si è rivelata proprio Angela Merkel, o meglio, il risultato conseguito dal suo partito, l’Unione cristiano democratica (Cdu) alle elezioni europee in Germania.

Merkel tra spinte nazionali ed europee
Con un partecipazione elettorale del 48%, in considerevole aumento (+4,8%) rispetto alle precedente tornata elettorale del 2009, i risultati delle europee hanno messo in evidenza la fiducia che i tedeschi continuano a riporre nella Cdu, riconfermatasi primo partito con il 30% dei voti (che salgono al 35,3% con quelli della Csu, i cristiano-sociali bavaresi). Una buona performance, considerata anche la crescita dei consensi per il partito socialdemocratico (27,3%) e l’ascesa di Alternativa per la Germania, partito euroscettico al debutto (7%).

Un risultato ancora più confortante se paragonato a quello dei partiti al governo negli altri stati membri (Italia esclusa). Le preferenze dei cittadini tedeschi, che in altri tempi non avrebbero avuto alcuna diretta influenza sulla nomina del presidente della Commissione, sono diventate invece fondamentali per la nomina di Juncker, riconosciuto da milioni di elettori come il legittimo pretendente grazie al risultato conseguito sia a livello nazionale che europeo.

Una nomina sostenuta dagli stessi socialdemocratici tedeschi e da gran parte dei media nazionali, che hanno seguito con attenzione, più che in altri paesi, la competizione fra i candidati. Una situazione scomoda per Merkel che ha visto così ridursi il proprio spazio di azione negoziale.

In effetti la cancelliera ha dovuto all’inizio di barcamenarsi tra le pressioni interne di chi ha chiesto a gran voce che si rispettasse l’esito del voto, e quelle esterne di chi, opponendosi alla scelta del lussemburghese cercava, a sua volta, di rispondere al proprio elettorato, David Cameron su tutti.

La Merkel ha dovuto anche tenere conto del rischio di una crisi istituzionale nel caso il nome avanzato dal Consiglio europeo al Parlamento non fosse stato quello di Juncker.

A muovere la Merkel sono state quindi più ragioni di politica interna che una genuina volontà di rispettare il verdetto delle urne, ma un ruolo non trascurabile ha giocato anche la preoccupazione di evitare destabilizzanti tensioni tra Consiglio e Parlamento europeo.

Il processo si è sviluppato in maniera tutt’altro che lineare, ma il suo esito è stato funzionale al recepimento delle istanze di chi chiedeva una maggiore legittimazione popolare per il presidente della Commissione.

Un risultato non scontato, che sarebbe stato impossibile raggiungere senza l’azione dei principali partiti europei, che hanno di fatto agito all’unisono per far sì che la scelta del candidato fosse in linea con il risultato elettorale. Si tratta di un cambiamento notevole che si è fatto strada nello scetticismo generale, e che alla fine è stato conseguito anche grazie a chi non lo voleva fino in fondo. Una novità dalla quale sarà difficile tornare indietro.

Lorenzo Vai è research fellow nell'Area Europa dello IAI.
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martedì 1 luglio 2014

EU: le elezioni dei quadri del Parlamento Europeo.

Nomine europee
Gruppi, Joelle li spiazza tutti
Adriano Metz
27/06/2014
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Consigliere comunale a Lorient, una base di sottomarini in Bretagna, 64 anni, vedova, Joelle Gergeeron Guerpillon è la figura chiave della VIII legislatura del Parlamento europeo.

O, almeno, lo è stata nella faticosa fase della formazione dei gruppi euroscettici. Che dovevano essere due, l’un contro l’altro schierato; e che, invece, sono solo uno, almeno per ora.

Eletta nelle liste del Front National (FN) di Marine Le Pen, partito in cui milita da quarant’anni, Joelle si sarebbe rifiutata di cedere il seggio a Strasburgo a un altro candidato - circostanza smentita dal FN: ha lasciato il partito e ha aderito al gruppo che Nigel Farage (Ukip) e Beppe Grillo cercavano di formare.

Risultato, Farage e Grillo hanno il loro gruppo; mentre la Le Pen e la Lega Nord, che, con i loro alleati olandesi, erano certi di formarlo non ce l’hanno e sono finiti tutti nel gruppo misto, niente o quasi fondi, cariche, tempo di parola.

Partita delle nomine europee
Il Parlamento uscito dalle elezioni europee di maggio si riunirà in plenaria per la prima volta martedì 1° luglio a Strasburgo: eleggerà il suo presidente - sulla riconferma di Martin Schulz, c’è l’intesa fra popolari e socialisti - e i suoi quadri. Fra i vice-presidenti, ci sarà il rappresentante del Partito democratico, David Sassoli, mentre Gianni Pittella sarà il capogruppo socialista. Roberto Gualtieri punta alla Commissione Affari economici e monetari, Antonio Tajani alla Commissione industria e trasporti.

A metà luglio, il PE voterà l’investitura del presidente della Commissione europea: dopo un mese di tiramolla, una larga maggioranza dei leader dei 28 ha sostenuto l’ex premier lussemburghese, ed ex presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, un popolare. Coagulato intorno al premier britannico David Cameron, il ‘fronte del no’ a Juncker s’è ridotto a poca cosa: britannici e ungheresi, 41voti nel Consiglio europeo, quando ce ne vogliono 93 per una minoranza di blocco.

La partita delle nomine continuerà con l’assegnazione dei portafogli nell’Esecutivo e sulle scelte dell’Alto Rappresentante della Politica estera e di sicurezza comune e delle presidenza del Consiglio europeo - un’ipotesi, la danese Helle Thorning-Schmidt, una socialdemocratica che piace alla Merkel - e dell’Eurogruppo - il finlandese Jyrki Katainen o il francese Pierre Moscovici -, in un’alchimia di competenze, nazionalità, appartenenze e genere.

L’Italia punterebbe, in prima istanza, al ‘ministero degli esteri’ europeo con Federica Mogherini, ma, in alternativa, non disdegnerebbe gli Affari interni e l’Immigrazione.

Nuovi gruppi parlamentari
In attesa delle mosse dei governi, i deputati europei hanno definito gli assetti politici dell’Assemblea, che potranno però variare a ogni momento. Alla chiusura delle trattative per la formazione dei gruppi, il 24 giugno, la sorpresa è stata il flop dell’alleanza euroscettica costruita, fin da prima del voto, intorno alla Le Pen, mentre Ukip e Movimento 5 Stelle (M5S) sono riusciti a mettere insieme ‘Europe for Freedom and Direct Democracy’ (Efdd), scegliendo David Borrelli (M5S) e lo stesso Farage come copresidenti. Già spezzata in gruppi fra di loro diversi e spesso eterogenei al loro interno, l’onda alta degli ‘anti euro’ ed ‘anti Ue’ ha perso forza parlamentare.

Le Pen s’è fermata a cinque partiti di diversi Paesi - ne servono almeno sette - e a 38 deputati -ne bastano 25 -: il FN (Francia, 24), la Lega Nord (Italia, 5), il Partito della Libertà Fpoe (Austria, 4), il Partito della Libertà Pvv (Olanda, 4) e Vlaams Belang (Belgio, uno).

La versione ufficiale è che "preferiamo, per ora, non avere un gruppo perché vogliamo un progetto politico stabile". Per questo, la porta è rimasta chiusa ai polacchi del Kongres Nowej Prawicy - “abbiamo preferito la qualità politica" - e non s’è mai socchiusa agli estremisti anti-semiti dichiarati di Alba Dorata (Grecia), Jobbik (Ungheria), Bulgaria senza censura ed ai neo-nazisti tedeschi.

Ma restano dei ‘cani sciolti’ nella terra di nessuno dei non iscritti: comunisti greci a parte, ci sono unionisti britannici, un’indipendente romena e altri.

Matrimonio di interesse tra Grillo e Farage
Delusi, ma ottimisti sulla possibilità di costituire presto un gruppo, i leghisti tessono l’elogio della coerenza e denunciano l’ammucchiata - “destinata a non durare” - cui si sarebbero prestati i grillini, il cui ‘matrimonio di convenienza’ con l’Ukip è stato sancito da un voto online. Borrelli la vede così: “Su certe cose, noi e Farage le pensiamo in maniera opposta e voteremo di conseguenza perché questo gruppo ci permetterà di farlo, mentre altri gruppi ci avrebbero obbligati ad assumere una posizione comune”.

Tra M5S e Ukip, ci sono pure “punti in comune”: “Ci batteremo per abolire il Patto di Stabilità e per una maggiore partecipazione dei cittadini europei”.

Il gruppo conta sette nazionalità e 48 deputati: 24 dell'Ukip, 17 del M5S, due del partito lituano Ordine e Giustizia, uno ceco del partito dei Cittadini liberi, due svedesi degli Svedesi democratici e un lettone dell'Unione dei verdi e dei coltivatori. Oltre, naturalmente, alla decisiva Joelle.

Complessivamente, il nuovo Parlamento inclina a destra, oltre che all’euroscetticismo. Il gruppo dei conservatori, l’Ecr, è diventato il terzo per dimensioni, con 69 deputati, scavalcando Verdi e liberali grazie alla decisione dei separatisti fiamminghi di lasciare i Verdi e di migrare fra i conservatori.

Il Partito popolare europeo ha 221 deputati ed è il gruppo più numeroso, nonostante una perdita di 56 seggi rispetto al 2009. Il Partito socialista europeo con 191 - pochi in meno che nel 2009 - è il secondo gruppo, davanti all’Ecr, che, malgrado la disfatta dei conservatori in Gran Bretagna, cresce di 12 seggi, grazie a un mix di 18 partiti di 13 paesi.

Dietro, i liberali (67), che attenuano le delusioni elettorali con la campagna acquisti: due partiti spagnoli e un portoghese entrano nei ranghi; poi la Sinistra unita (52), i Verdi (50), l’Efdd (48). Attendono collocazione i 53 non iscritti: lì dentro, c’è quella che doveva essere l’Alleanza della Le Pen.

Adriano Metz è giornalista freelance
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Ucraina: conflitti sul gas. Difficoltà di negoziato con la Russia

Crisi Ucraina
Sul gas Mosca e Kiev ai ferri corti
Nicolò Sartori
23/06/2014
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I negoziati sul futuro degli approvvigionamenti di gas russo verso l’Ucraina hanno subito una brusca battuta d’arresto. A poco sono serviti i tentativi di mediazione dell’Unione europea (Ue) che non è riuscita a indurre le parti a un accordo che scongiurasse la sospensione, lunedì scorso, delle forniture di Gazprom a Kiev.

Sulla base di clausole inserite nel contratto siglato con l’ucraina Naftogaz, Gazprom ha infatti introdotto un regime di pagamenti anticipati che prevede la vendita di gas all’Ucraina soltanto a fronte di versamenti a ogni inizio mese. Questo ennesimo scontro ha riacceso il dibattito sul destino delle relazioni energetiche tra Ue e Russia e sui rischi per la sicurezza energetica del vecchio continente in caso di scontro frontale con il Cremlino.

Regolamento di conti
L’Ucraina importa dalla Russia circa 30 miliardi di metri cubi (Bcm) annui di gas, pari a circa il 60% dei suoi consumi interni. Per buona parte degli ultimi anni, Kiev ha pagato le forniture russe a prezzi scontati - attorno ai 270 dollari per 1.000 metri cubi di gas nel 2013 - e ben di sotto della media dei consumatori europei.

In seguito alle proteste di Euromaidan, la situazione è cambiata drasticamente. Dal 1° aprile il prezzo del gas è salito a 485 dollari. La questione dei prezzi, e in particolare il differenziale di oltre 200 dollari tra prima e dopo lo scoppio della crisi, spiega molto dell’attuale impasse tra Mosca e Kiev.

All’irrigidimento sulla questione dei prezzi si accompagna l’inflessibilità sul pagamento dei debiti contratti da Kiev. L’Ucraina, infatti, ha accumulato circa 4 miliardi e mezzo di dollari di passivi con Gazprom, uno e mezzo per il periodo novembre-dicembre 2013 e tre per i mesi di marzo e maggio 2014.

Di fronte alla persistente insolvenza ucraina, a metà maggio 2014 Gazprom ha annunciato l’applicazione dell’art. 5.8 del contratto del 2009, che prevede l’applicazione della clausola del pagamento anticipato, senza il quale la Russia non si sente più impegnata a consegnare il gas all’Ucraina.

Grazie anche alla mediazione dell’Ue, nelle ore prima della scadenza dell’ultimatum russo, Gazprom ha proposto un prezzo di 385 dollari per 1.000 metri cubi - in linea con quelli applicati in Europa e, a quanto pare, a quello fissato nel recente contratto siglato con la cinese Cnpc.

Al contempo, la Commissione ha avanzato un piano per spalmare su più mesi il pagamento del debito ucraino, grazie anche alle garanzie offerte dall’Ue e del Fondo monetario internazionale. Questi sforzi non sono però andati ad effetto.

Rischi energetici per l’Europa e l’Italia
L’annuncio di Gazprom ha immediatamente allertato governi e opinione pubblica europei. L’Ucraina non è solamente cliente della compagnia energetica russa,ma è anche fondamentale per gli approvvigionamenti verso l’Ue. Dal territorio ucraino transitano circa il 20% dei consumi totali del vecchio continente e il 60% delle esportazioni di gas russo verso i mercati europei.

La questione delle forniture all’Ucraina e la sicurezza degli approvvigionamenti verso l’Ue dovrebbero essere separate, poiché il blocco delle prime non ha un impatto diretto sulla regolarità dei secondi.

Tuttavia, com’è accaduto nel 2009, vi è il rischio che, di fronte a una prolungata sospensione delle forniture russe, Uktransgaz - controllata della compagnia nazionale Naftogaz - decida di destinare a uso interno parte dei volumi di gas in transito per l’Ue. Un simile comportamento potrebbe determinare una ritorsione russa e la sospensione anche delle forniture destinate ai clienti europei.

Nonostante la capacità di stoccaggio localizzata in Europa, nel medio-lungo periodo questa situazione potrebbe avere un impatto significativo sui consumi europei. Verrebbero colpiti soprattutto quei paesi dell’Europa orientale - Ungheria, Slovacchia e Bulgaria in primis - quasi completamente dipendenti dal gas russo in transito sul territorio ucraino.

L’Italia ridurrebbe l’impatto grazie a fonti di approvvigionamento ben diversificate, ma sarebbe particolarmente vulnerabile di fronte situazioni di instabilità negli altri paesi fornitori, Libia fra tutti.

South Stream
Nonostante i tentativi da ambo le parti di diversificare i propri mercati di riferimento, con 135 Bcm di gas scambiati nel 2013, quella tra Russia e Ue è probabilmente la più solida partnership energetica al mondo. Il superamento della crisi energetica ucraina è nell’interesse strategico di entrambe le parti.

In questo contesto, va tenuto conto del ruolo dell’Ucraina, che fa leva sulla sua posizione chiave come paese di transito per ottenere vantaggi di breve periodo. Primo fra tutti, il sostegno di Ue e Fmi per far fronte al proprio dissesto finanziario e ripagare i debiti contratti con Gazprom.

Tale sostegno potrà essere garantito per un periodo limitato di tempo, e dovrà essere accompagnato dall’impegno di Kiev ad attuare incisive riforme interne in materia di efficienza energetica e per lo sviluppo di nuove risorse, inclusi gli idrocarburi non-convenzionali.

Durante il G7 Energia di Roma, i partner occidentali si sono detti pronti a sostenere l’Ucraina in questo sforzo e a promuovere iniziative per garantire l’approvvigionamento di gas dall'Europa centrale all’Ucraina grazie all'inversione dei flussi sulle infrastrutture in essere.

Anche la Russia dovrà mostrare flessibilità e ragionevolezza, soprattutto sulla questione dei prezzi. Sul piatto della bilancia, in questo caso, può essere messo il progetto del gasdotto South Stream, strategico per i tentativi del Cremlino di scavalcare il territorio ucraino.

Se accompagnata a una maggiore autonomia energetica di Kiev da Mosca, la realizzazione del gasdotto potrebbe ridimensionare il fattore ucraino nelle relazioni Ue-Russia, aprendo una nuova fase della partnership energetica con Mosca.

L’Italia, coinvolta con Eni nel progetto, dovrebbe darsi da fare sul piano diplomatico per la sua realizzazione, che contribuirebbe a disinnescare una contesa minacciosa per la sicurezza energetica dell’intero continente.

Nicolò Sartori è ricercatore del Programma Energia dello IAI (Twitter: @_nsartori).
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Comunità Europea: grandi attese per l'opera di Junker

Nuovo presidente della Commissione
Elezione di Juncker, svolta per la democrazia europea
Brendan Donnelly
19/06/2014
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Se Jean-Claude Juncker fosse eletto nuovo presidente della Commissione europea sarebbe una svolta per la vita democratica dell'Unione europea (Ue).

È uno strano paradosso che proprio nel Regno Unito, dove le presunte carenze democratiche dell'Ue sono oggetto di critiche così diffuse, politici e commentatori siano così riluttanti a riconoscere questo salto qualitativo verso un'Unione più democratica.

Ci si è lamentati a lungo, e non a torto, che gli elettori non sapessero per che cosa votavano. L'aver legato le elezioni europee del 2014 alla presidenza della Commissione è stata una risposta molto efficace a queste rimostranze.

Trattato rispettato
Una tesi senza fondamento, ma che riecheggia spesso nei media britannici, è che in qualche modo le clausole del trattato di Lisbona sull'elezione del presidente della Commissione siano state stravolte o mal applicate nelle recenti elezioni europee. È una tesi che non regge a una lettura anche sommaria del trattato.

Il trattato stabilisce che il Consiglio europeo, nell'avanzare la sua proposta per la presidenza della Commissione, deve "tenere conto" dei risultati delle elezioni europee.

La grande maggioranza dei membri del Consiglio europeo concorda su un'interpretazione perfettamente ragionevole di questa clausola. Pur appartenendo a partiti politici diversi, hanno dichiarato di voler sostenere il candidato scelto dal raggruppamento politico più forte, un candidato che era stato reso noto agli elettori prima e durante le elezioni europee.

Anzi, prima delle elezioni europee molti membri del Consiglio europeo si sono espressi con particolare enfasi a favore di questa procedura. E ritengono che accantonarla ora, dopo le elezioni, significherebbe trattare con disprezzo gli elettori europei.

Un numero limitato di membri del Consiglio europeo, incluso il governo britannico, rifiuta di sostenere Juncker. Il trattato di Lisbona stabilisce però che, in caso di opinioni divergenti in seno al Consiglio europeo, si decida a maggioranza qualificata.

Tradizionalmente il Consiglio europeo ha preferito procedere per consenso anziché con votazioni formali. È probabile tuttavia che alla fine di questo mese il Consiglio decida a maggioranza di adottare Jean-Claude Juncker come candidato del Consiglio nel suo insieme.

Per la democrazia europea sarebbe un bel passo avanti. I governi nazionali, infatti, farebbero precisamente ciò che gli euroscettici gli chiedono di fare: dare ascolto ai cittadini.

Peraltro, una volta che il Consiglio europeo ha proposto il suo candidato per la presidenza della Commissione, lui o lei diventa presidente della Commissione solo se ha il sostegno della maggioranza assoluta - una soglia alta - del Parlamento europeo. Il trattato di Lisbona ha grandemente rafforzato il ruolo del Parlamento europeo. Molti, anche se non tutti, i membri del Consiglio lo hanno capito.

Autolesionismo britannico
Era prevedibile che il premier britannico David Cameron fosse tutt'altro che entusiasta dell'idea di Juncker come nuovo presidente della Commissione. Quel che sorprende è la veemenza della sua ostilità verso l'ex-primo ministro del Lussemburgo. Fattori politici interni giocano indubbiamente un ruolo: l'opposizione di Cameron alla candidatura di Juncker ha anche lo scopo di distrarre l'attenzione dal risultato deludente dei conservatori nelle elezioni europee.

Suona comunque bizzarra l'affermazione di Cameron, riportata da alcuni media, che l'elezione di Juncker a presidente della Commissione renderebbe più probabile l'uscita del Regno Unito dall'Unione. Per rinegoziare i termini della sua partecipazione all'Ue, la Gran Bretagna dovrebbe infatti discuterne innanzitutto con gli altri stati membri, non con la Commissione.

Sia i liberaldemocratici che i laburisti hanno fatto propria l'opposizione di Cameron nei confronti di Juncker. Non c'è bisogno di essere un fan di Juncker o di condividerne le posizioni politiche per capire quanta pigrizia e superficialità denoti questo atteggiamento.

Juncker è un leader europeo di spicco, il cui gruppo politico ha ottenuto ampi consensi in tutta Europa nella recente competizione elettorale. I successi localmente circoscritti degli eterogenei partiti antieuropei - il Fronte nazionale, l'Ukip e i Cinque Stelle - non possono diventare il pretesto per mettere in dubbio il mandato ricevuto da Juncker.

Ci sono naturalmente molte questioni su cui Juncker e Cameron non concordano. Ma la tesi che queste differenze siano così radicali che potrebbero indurre razionalmente la Gran Bretagna a uscire dall'Ue è sconcertante e distruttiva.

Il rifiuto dell'establishment britannico di Juncker come presidente della Commssione europea non renderà più facile vincere un futuro referendum sull'Europa. Lo renderà invece più difficile.

Brendan Donnelly è direttore del The Federal Trust di Londra.

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Ungheria: Gli Ungheresi dei Carpazi chiedono l'autonomia. Fonte IASG

Vladislav GulevichEuropa0 commentI
Gli Ungheresi dei Carpazi chiedono l’autonomia
Per molto tempo il destino degli Ungheresi nei Paesi confinanti è stato per Budapest una questione delicata. Il governo di Victor Orbán ha concesso a molti di loro di ottenere la cittadinanza ungherese e votare alle elezioni nazionali. ”Agli Ungheresi del Bacino Carpatico spettano la doppia cittadinanza, i diritti civili e l’autonomia” – ha detto il Primo ministro ungherese il 10 maggio – “Questa è la posizione che adotteremo presso la comunità internazionale”. Secondo il Primo Ministro, la questione delle popolazioni ungheresi è particolarmente di attualità a causa della situazione esistente nella confinante Ucraina, dove vivono circa 200mila persone di etnia ungherese che hanno diritto alla cittadinanza ungherese e all’autogoverno. “Questo è quanto ci aspettiamo dalla nuova Ucraina che sta prendendo forma ora” ha affermato Orbán… Non si tratta solo dell’opinione personale di chi si trova alla guida di uno Stato confinante. La preoccupazione riguardo la sorte degli Ungheresi dei Carpazi è ampiamente diffusa in Ungheria. Questo sentimento è alimentato dalle immagini che hanno mostrato le truppe del governo provvisorio ucraino aprire il fuoco sui civili nel Donbass.
Gli Ungheresi hanno provato a difendere la loro lingua e cultura sin dai primissimi giorni dell’indipendenza ucraina. Il governo di Kiev ha fatto orecchie da mercante alle loro richieste. Gli Ungheresi dei Carpazi e i Ruteni (Ruteni o Russini) sono stati sottoposti alla pressione dell’ “ucrainizzazione” per oltre venti anni. Invece di diventare Ucraini, entrambi i popoli si battono per estendere i propri diritti, ma ai Ruteni è perfino proibito affermare l’idea di identità nazionale o quella di autodeterminazione.
Gli Ungheresi di Ucraina e i Ruteni solitamente lottano fianco a fianco. I Ruteni hanno una loro propria storia di relazioni con l’Ungheria e l’Ucraina. Hanno vissuto per oltre un migliaio di anni in Ungheria divenendo parte dell’Ucraina solo nel 1944. In Ungheria avevano scuole nelle quali l’insegnamento era nella loro lingua madre. Scuole che furono chiuse durante il periodo dell’Unione Sovietica, così come dopo la sua caduta.
In Ucraina, almeno in due occasioni i Ruteni hanno attraversato ondate di repressioni politiche. Il 14 marzo 1939 fu creata l’Ucraina Carpatica e il filo-nazista Augustin Vološin ne divenne il Presidente. Questi si rese tristemente noto per spedire ai campi di concentramento tutti quei Ruteni che rifiutavano di dichiararsi Ucraini, vicenda storica, questa, che non contribuisce certo ad accrescere la simpatia nei confronti dell’Ucraina. Nel 2002, con decreto dell’allora Presidente ucraino Leonid Kuchma, Augustin Vološin fu insignito postumo del titolo di Eroe dell’Ucraina e venne conferito dell’Ordine dello Stato.
Il 1° dicembre 1991, simultaneamente alla consultazione referendaria sull’indipendenza ucraina che si tenne su tutto il territorio nazionale, si svolse il referendum regionale transcarpatico. Il 78,8% dei votanti si espresse a favore della creazione di uno speciale territorio autodeterminato della Transcarpazia, autonomo da qualsiasi altra entità territoriale e amministrativa. Lo stesso giorno si svolse un’altra consultazione locale in merito al conferimento all’area urbana di Beregovo, in Transcarpazia, dello status di distretto autonomo ungherese (due terzi degli 85mila abitanti sono di etnia ungherese). L’81,4% della popolazione adulta si pronunciò favorevolmente. I risultati di questi due referendum locali costituiscono oggi la base legale per la proposizione delle richieste delle popolazioni del posto.
Il partito di governo Fidesz e il movimento nazionalista ungherese Jobbik, guidato da Gábor Vona, sono tra i più attivi difensori degli Ungheresi che vivono all’estero. I due partiti hanno più volte criticato le autorità ucraine per il comportamento tenuto nei confronti degli Ungheresi della Transcarpazia. Questi due movimenti vogliono che Kiev costituisca un’area autonoma ungherese nella regione del Tibisco. In occasione della visita all’Università Statale di Mosca nel 2013, Gábor Vona ha dichiarato che la Russia difende le tradizioni europee, mentre l’Europa le tradisce.
Il movimento per l’autodeterminazione degli Ucraini del Sud-Est ha inspirato gli Ungheresi nella loro lotta per l’autonomia. Il movimento non è fomentato da “sabotatori” stranieri, come la propaganda di Kiev continua a sostenere, quanto piuttosto dal nazionalismo del regime dei putschisti, che ostinatamente rifiuta di riconoscere il carattere multinazionale dello Stato ucraino. Le questioni ungherese e rutena sono si intrecciano nello stesso modo delle storie di questi due popoli, che hanno molto in comune. Queste tematiche potrebbero essere affrontate meglio insieme, ma Kiev non ha l’esperienza, le risorse, né la volontà di trovare una soluzione ai problemi delle minoranze.
Il problema degli Ungheresi di Ucraina è giunto alla ribalta dell’agenda di politica estera di Budapest. Il 15 maggio, parlando alla Conferenza sulla Sicurezza Internazionale di Bratislava, Victor Orbán ha detto che l’Ucraina non fornisce garanzie democratiche, non dispone di un piano per lo sviluppo economico e rappresenta una sfida per l’Unione Europea. Gli esperti sono sicuri che Budapest non permetterà che la questione delle minoranze nazionali in Ucraina, e prima di tutte le popolazioni della Transcarpazia, cada nel dimenticatoio.
(Traduzione dall’inglese di Alessandro Lundini

Europa: il nuovo presidente

Nomina del presidente della commissione Ue
Roadmap per la democrazia europea
Pier Virgilio Dastoli
16/06/2014
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Le elezioni europee sono state caratterizzate da due novità di rilievo: la crisi che ha colpito, ma non affondato, il progetto comunitario, provocando l’evaporazione del consenso popolare verso l’Unione e la decisione dei partiti europei di scegliere il proprio candidato alla presidenza della Commissione.

Nel caso della crisi, i governi hanno compiuto l’azzardo di ritenere che i debolissimi segnali di ripresa avrebbero spinto gli elettori a dimenticare il livello elevato della disoccupazione, l’annientamento dello stato del benessere, le asimmetrie sociali e le tensioni fra governi.

Apparente governo europeo
Nel caso della scelta dei candidati alla presidenza della Commissione invece, i partiti europei hanno compiuto l’azzardo di ritenere che questa forzatura - in un sistema ancora a metà strada fra Vestfalia (il potere agli Stati) e Westminster (il potere al Parlamento) - avrebbe rafforzato la dimensione politica dell’Unione.

L’elevata astensione (57% di non votanti, senza calcolare schede bianche o nulle), la crescita dei movimenti euro-ostili e di partiti euro-critici, il rovesciamento di almeno una dozzina di maggioranze da sinistra a destra e da destra a sinistra sono stati i segni inequivocabili della distanza enorme fra governanti e governati.

Questa distanza non è stata colmata dalle candidature alla presidenza della Commissione. La grandissima maggioranza dei partiti nazionali ha deciso di non stare al gioco dei partiti europei (avete sentito Matteo Renzi, Angelino Alfano o Silvio Berlusconi rivendicare i meriti europei di Martin Schulz, candidato del Partito socialista europeo, o Jean Claude Juncker, candidato del Partito popolare europeo?).

Gli elettori non hanno mostrato alcun interesse all’apparente scontro fra apparenti candidati alla guida di un apparente governo europeo. Il dibattito elettorale - laddove non si è perso nelle diatribe nazionali - si è concentrato sulla dimensione delle politiche europee e sulla dimensione politica dell’Unione.

Nodo Juncker
È totalmente astratta la campagna di chi dice: “Juncker (che non si è candidato alle elezioni europee come Tsipras, tutti e due ben avvinghiati al loro seggio nazionale, ndr) è stato scelto dalla maggioranza degli elettori europei e spetta a lui la presidenza della Commissione”.

Risibile è poi l’opinione di chi sostiene che, se cade Juncker, la carta passa a Schulz e via di seguito con gli altri quattro candidati come se il fatto di essere stati scelti nei congressi di confederazioni europee di partiti nazionali li abbia tutti unti con l’olio santo della democrazia europea.

Sembra che Juncker voglia iniziare un tour de force per consultare i capi-gruppo uscenti al Parlamento europeo (Pe), fra i quali troviamo - oplà, il gioco è fatto! - anche Schulz che si è dimesso da presidente dell’uscente Pe per partecipare a queste inedite consultazioni.

Consultazioni che Juncker, ex-primo ministro lussemburghese ed ex-presidente dell’Eurogruppo, ha deciso di avocare a sé (sottraendole a Van Rompuy) sostenuto dal suo sfidante Schulz che dice di agire per ragioni istituzionali.

Ricetta per la dimensione politica dell’Ue
Per contribuire al rispetto dello spirito dei trattati, creando contemporaneamente nuovi spazi alla democrazia europea in statu nascendi, l’Ue deve seguire la seguente road map.

a) Il Consiglio europeo del 26-27 giugno discute sul metodo per arrivare a formulare la proposta di un candidato alla presidenza della Commissione e sul suo profilo “tenuto conto delle elezioni europee”.
b) Nel Pe, durante e dopo la sessione costitutiva del 1°-2 luglio, viene verificata l’esistenza di una possibile coalizione intorno al nome di un candidato e a un programma di governo per la legislatura.
c) Il presidente del Consiglio europeo constata, durante “appropriate consultazioni”, l’esistenza di una possibile ampia maggioranza intorno a un nome e un programma.
d) Il Consiglio europeo propone a maggioranza qualificata (doppia: ponderata e di governi) il nome del candidato alla presidenza della Commissione secondo le indicazioni emerse dalle consultazioni.
e) Il candidato-presidente incontra i gruppi politici. I partner dell’eventuale coalizione gli sottopongono quattro condizioni da cui fanno dipendere la sua elezione: un programma che rappresenti il massimo comun divisore fra culture e priorità dei partiti che faranno parte della maggioranza; la composizione di un collegio che sia coerente con la coesione della maggioranza (per dirla in chiaro: se i conservatori britannici o i popolari ungheresi e svedesi o i liberali olandesi non votano “sì” non poss0no avere un commissario); l’attribuzione dei portafogli non per rispettare equilibri nazionali, ma per collegarli a un nuovo modo di far politiche nell’Unione (sarebbe opportuno unificare energia e ambiente o avere un commissario per il Mediterraneo); l’impegno ad agire per rafforzare il ruolo politico della Commissione ora a trattato costante, ma aprendo la strada ad una riforma del sistema.
f) Il candidato-presidente ottiene la maggioranza assoluta dei membri del Pe.

Così nasce la dimensione politica dell’Unione.

Pier Virgilio Dastoli è presidente del Consiglio Italiano del Movimento Europeo (CIME).
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