di
i Alessandro Aresu
da www.treccani.it/ atlante
Emmanuel Macron ha realizzato una lunga discussione con i giovani ricercatori di Le Grand Continent, in cui espone la sua “Dottrina”. Il presidente francese propone di riparare le fratture di una “economia sociale di mercato” divenuta sempre più aperta e sempre meno sociale, e non più in grado di affrontare le sfide del nostro tempo. A partire dal cambiamento climatico, dalle disuguaglianze, dalla condizione economica e psicologica della classe media occidentale. La risposta, per Macron, passa per la sostituzione del Washington Consensus con un Consenso di Parigi. Vasto programma, si potrebbe dire, citando Charles de Gaulle, di cui nel 2020 l’Eliseo ha celebrato il cinquantennale della morte.
L’espressione “Consenso di Parigi” (Consensus de Paris) non è nuova, ma, nella storia intellettuale, ha un significato opposto. Nei suoi studi sull’organizzazione economica internazionale, Rawi Abdelal della Harvard Business School parla di “consenso di Parigi” per descrivere l’influenza nei funzionari internazionali francesi nel sostegno alla globalizzazione dei mercati finanziari e alla riduzione dei vincoli alla mobilità dei capitali. In termini storici, la cosiddetta “svolta del rigore” di Mitterrand nel 1983, dopo i fallimentari progetti dell’inizio del suo mandato presidenziale, si trasferisce nel contesto globale. Questo processo avviene con una fondamentale impronta francese, attraverso l’azione di Jacques Delors nella Commissione europea, Henri Chavranski nell’OCSE e Michel Camdessus nel Fondo monetario internazionale. L’adesione dei socialisti francesi al liberismo è un contesto culturale in cui si muove il giovane Emmanuel Macron, prima del ripensamento odierno, che mostra l’evoluzione del suo pensiero.
Oggi, difficilmente la crisi del Consenso di Washington (formula comunque caduta in disuso), porterà all’ascesa del Consenso di Parigi. Allora perché non Seoul, o Tokyo, o Hanoi? Allora perché non Berlino? In effetti, l’esposizione di Macron può essere letta soprattutto con occhiali statunitensi e tedeschi, perché è a Washington e a Berlino che sono dedicati i messaggi più forti. Verso gli Stati Uniti, perché Macron rivendica la capacità di aver coinvolto la Cina in ambito multilaterale, soprattutto in riferimento al clima. E perché verso la Cina Macron ha un linguaggio più cauto rispetto a quello della competizione e della rivalità, adottato a livello europeo. Il presidente francese esprime una certa invidia per il progetto cinese delle Vie della Seta, nel suo significato simbolico legge la vitalità di un popolo, da cui gli europei debbono imparare. Quando illustra l’idea di una “autonomia strategica” europea, Macron considera gli Stati Uniti e la Cina sostanzialmente equidistanti: anzi, è proprio per il legame in termini di sicurezza e di valori con gli Stati Uniti che porta a marcare una “dichiarazione di indipendenza”. Tuttavia, gli Stati Uniti hanno un avversario: la Cina. Mentre agli europei Macron propone una “rivoluzione positiva”, dove non c’è un nemico geopolitico o ideologico. A suo avviso, gli europei non devono avere un singolo obiettivo, bensì la presunzione di essere leader nel mondo allo stesso tempo su quattro temi fondamentali (istruzione, sanità, ecologia, digitale).
La ricerca di una leadership su queste quattro aree sarebbe stata eccessiva anche per l’America di Franklin Delano Roosevelt, che si limitava a quattro libertà più generiche (e aveva Norman Rockwell per dipingerle). Ma il punto è: a partire da quali risorse e da quale coesione interna sono realizzabili questi progetti? Una domanda che ci porta al confronto con la Germania. Macron, secondo una tradizionale posizione francese, in cui inserisce il suo impulso da politico-intellettuale in grado di discutere agilmente di sovranità westfaliana, ha un’idea dell’Europa come spazio in cui la Germania paga per realizzare progetti industriali e tecnologici francesi. Da un lato il portafoglio, dall’altro la testa, o se vogliamo l’impeto. In quest’ottica, la visione di Macron ‒ e del commissario Breton ‒ è effettivamente emersa: le loro idee di aggregazione industriale (a guida francese, mentre ai progetti a guida italiana si applica la “concorrenza”) rispondono meglio al contesto Covid-19 e a un certo ripensamento dell’industria tedesca ad alta tecnologia dei rapporti con la Cina. Ma la mappa della politica estera, dell’idea di difesa e dei rapporti con i vicini continua a essere molto diversa per la Germania. Con la ministra della Difesa (e meteorica leader CDU), Annegret Kramp-Karrenbauer, che ha attaccato l’autonomia strategica, per poi essere redarguita dallo stesso Macron che evoca Angela Merkel. E con un’idea delle minacce e dei rivali molto diversa: basti pensare alla Turchia, potenza curiosamente quasi assente nell’esposizione della Dottrina Macron, a dispetto delle forti tensioni degli ultimi mesi.
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