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Metodo di Ricerca ed analisi adottato

Medoto di ricerca ed analisi adottato
Vds post in data 30 dicembre 2009 sul blog www.coltrinariatlanteamerica seguento il percorso:
Nota 1 - L'approccio concettuale alla ricerca. Il metodo adottato
Nota 2 - La parametrazione delle Capacità dello Stato
Nota 3 - Il Rapporto tra i fattori di squilibrio e le capacità delloStato
Nota 4 - Il Metodo di calcolo adottato

Per gli altri continenti si rifà riferimento al citato blog www.coltrinariatlanteamerica.blogspot.com per la spiegazione del metodo di ricerca.

giovedì 14 novembre 2013

Immigrazione: iniziative concrete nel Mediterraneo

Immigrazione
Mare Nostrum, mare comune
Fabio Caffio
23/10/2013
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Avendo in mente una positiva visione geopolitica del Mediterraneo, moderna, ma non priva di radici storiche, l'operazione di soccorso umanitario e controllo dei flussi migratori lanciata dal nostro paese è stata denominata Mare Nostrum.

L’espressione indica una piena assunzione di responsabilità italiana nella sorveglianza dei mari adiacenti. Contiene poi un chiaro messaggio rivolto all’Europa: la protezione delle frontiere marittime non può essere disgiunta dalla tutela della vita e dei diritti delle persone che cercano di attraversarle.

Sorveglianza alto mare
La cornice della nuova operazione, che si basa su un robusto e variegato dispositivo di navi d'altura, naviglio costiero, elicotteri e velivoli da pattugliamento (compresi quelli senza pilota), è il controllo dell'immigrazione via mare facente capo al ministero dell'interno.

La normativa di riferimento è infatti contenuta nel decreto interministeriale del 2003, attuativo della Fini-Bossi. Questo prevede che la sorveglianza in alto mare sia incentrata sul coordinamento operativo della Marina militare nei confronti di Guardia di finanza e capitaneria di porto-guardia costiera.

In relazione alle recenti sciagure ed alla provenienza dei flussi l'attività delle forze aeronavali, tale sorveglianza non potrà che svolgersi nello stretto di Sicilia e nel mar Ionio.

Protezione e prevenzione
Il ruolo assunto dalla Marina militare è inquadrabile nella funzione non militare di guardia costiera riconosciutale dal codice dell'ordinamento militare. La missione prioritaria del dispositivo navale della Marina è ora quella di garantire il salvataggio della vita umana (Search and Rescue, Sar) in favore di imbarcazioni in difficoltà. Proprio per questo è stata prevista la presenza di una nave anfibia, il San Marco, dotata di capacità mediche e di elisoccorso.

Di certo non saranno comunque tralasciati gli aspetti di ordine pubblico di competenza delle forze di polizia, quali l'identificazione delle persone salvate, anche ai fini della concessione dell'eventuale successiva protezione umanitaria, e il contrasto delle attività criminali di trafficanti, scafisti e "navi madre".

Condivisione informazioni
Essenziale per il buon esito dell'operazione è la disponibilità del quadro di situazione dello scenario marittimo, la cosiddetta Maritime Situational Awareness (Msa), fornita dal dispositivo interministeriale integrato di sorveglianza marittima (Diism) realizzato dalla Marina militare.

La prospettiva che anima il Diism quale strumento di condivisione dei dati sulla situazione marittima con tutte le amministrazioni pubbliche è il rafforzamento dell'azione unitaria dello stato sul mare. Non solo nel Sar, ma anche nel controllo dei traffici marittimi, la tutela dell'ambiente marino e la prevenzione delle attività illegali.

Questa è d'altronde la direzione verso cui va la politica marittima integrata dell'Unione europea e questa è la precondizione operativa adottata dalla Commissione nel varare il sistema di sorveglianza Eurosur che sarà messo a disposizione di Frontex.

Ipotetica zona cooperazione SAR
L’iniziativa con la quale l’Italia ha deciso di dar vita ad un'attività nazionale di pattugliamento delle rotte provenienti dalle zone di crisi dell'Africa e del Medio Oriente.è la prova più evidente dei limiti dell'Unione europea nel confrontarsi con il problema.

Non è tuttavia esclusa una cooperazione dell'Italia con i paesi che si affacciano sul teatro dell'operazione. Viene da pensare non solo a Tunisia, Francia, Spagna e Grecia, ma anche a Malta che ha mostrato di recente volontà di rafforzare le relazioni marittime con l'Italia.

Non solo Frontex 
Vuoi per l'ambiguità della sua missione, vuoi per il suo gravitare in zone di interesse di Spagna e Grecia, Frontex non è stata sinora di grande aiuto all'Italia. Il commissario europeo agli affari interni Cecilia Malmstrom promette tuttavia un suo allargamento a tutto il Mediterraneo centrale.

Nel frattempo Il grande impegno dell'Italia nel Sar e nell'assistenza umanitaria (oscurato purtroppo, nel 2009, dalla parentesi del "caso Hirsi") potrà essere sbandierato con orgoglio in Europa. Il modello italiano di integrazione interagenzia tra tutti gli attori operanti sul mare -peraltro adottato anche dalla Francia- è un valido esempio da seguire.

Le soluzioni da affiancare a Frontex possono essere varie. In applicazione dell'art. 44 del Trattato sull'Unione europea si potrebbe, per ipotesi, realizzare una forma di cooperazione rafforzata in materia di missioni umanitarie e di soccorso (un tempo inquadrabili nelle c.d. "missioni di Petersberg") mediante una forza navale di sorveglianza con funzioni di Guardia costiera.

Non senza dimenticare che esiste già una forza marittima europea (Euromarfor) incaricata di svolgere queste missioni, attivata nel quadro della vecchia Unione europea occidentale sin dal 1995 ad opera di Francia, Italia, Portogallo e Spagna.

Fabio Caffio è Ufficiale della Marina Militare in congedo, esperto di diritto internazionale del mare.
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mercoledì 13 novembre 2013

Turchia e i rapporti con L'Europa

Series of commentaries, policy briefs and working papers published in the context of the IAI-Istanbul Policy Center-Mercator Foundation project "Turkey, Europe and the World" on the political, economic and foreign policy dimensions of Turkey's evolving relationship with the EU.

• The Future of Europe, Differentiated Integration and Turkey’s Roleby M.Müftüler-Baç

What impact would Turkish EU membership have on the future of the EU, which is now hotly debated in crisis-ridden European countries? Turkish membership could be a blessing in disguise. The evolution of the EU towards a path of differentiated integration, with a new type of membership for Turkey, could provide the Union with further opportunities to deepen integration in different policy areas. Turkey might adopt the EU’s acquis on key polic ies such as energy, transport, the single market or common security and defence, but remain outside of the EU framework as far as parts of EU social agenda and the Schengen regime are concerned. If Turkey becomes one of the first examples of such a scheme, the future of European integration could drastically change, as the EU would become a blend of an organizational core and a system of functionally differentiated units.


• Turkey, Europe and the Syrian Crisis: What Went Wrong?by N.Tocci

Syria should have united, not torn, Turkey and Europe apart. It should have led both sides to work together, and through closer foreign policy coordination, possibly rebuild part of that long-lost trust that is badly needed to re-launch the broader EU-Turkey agenda. But when on 21 August 2013 a chemical bombardment, allegedly carried out by government forces, killed hundreds on the outskirts of Damascus, the debate polarized. Turkey was quick to jump on the interventionist band wagon. The EU took a different line. With the sole exception of France, no member state openly backed the idea of a military attack without a UN Security Council resolution. In view of the current prospects for a reinvigorated diplomatic process, what should Europe, Turkey and the US do?

For further information visit our website

sabato 2 novembre 2013

Kiev: sempre più ad Occidente

L’UCRAINA SI UNISCE ALL’OPERAZIONE “OCEAN SHIELD” DELLA NATO

Dopo l’approvazione del parlamento ucraino e quella del Consiglio Atlantico della NATO, la fregata ucraina “Hetman Sahaydachnyy” ha preso il largo per raggiungere la regione del Corno d’Africa dove la NATO prosegue l’operazione anti pirateria “Ocean Shield”. La fregata darà manforte alle navi NATO già presenti nel teatro operativo, la HNOMS Fridtjof Nansen e la USS De Wert.

RUSSIA:CONTRARIA ALLA ADESIONE DI KIEV ALLA UE, MOSCA FA PRESSIONI SULL’UCRAINA USANDO L’ARMA DELLE FORNITURE DI GAS. .


La Russia di Putin non tollera che l’Ucraina entri nell’area economica occidentale ed usa ogni mezzo per costringere Kiev a desistere dalle sue intenzioni.
L’Ucraina ha ribadito la sua volontà di firmare l’accordo di Associazione all’UE. In occasione del vertice europeo che si svolgerà a Vilnius il 28 ed il 29 novembre prossimo, La Lituania è presidente di turno della UE, Kiev auspica di firmare un accordo di associazione e di libero scambio con l’Unione Europea. Mosca invece vuole, di contro, che l’Ucraina entro nell’area di libero scambio a guida russa che include già la Bielorussia ed il Kazachistan.
Negli ultimi mesi, su questa linea, Il Cremlino sta intensificando le pressioni su Kiev imponendo controlli doganali più duri e bloccando alcune importazioni di determinati beni.
L’ultima iniziativa proveniente  dalla Russia è la richiesta  del saldo delle forniture di Gas. Gazprom, attraverso il suo amministrazione delegato, Alexei Miller, ha affermato che l’Ucraina deve 640 milioni di euro di pagamenti arretrati per le consegne di metano, pur avendo già esteso al 1 ottobre la scadenza iniziale.
In passato Gazprom ha già interrotto per due volte le forniture di gas all’Ucraina per controversie sui pressi di fornitura. In quelle occasioni le interruzioni avevano colpito anche le consegne dirette ai Paesi dell’Unione Europea e ciascuna delle due parti aveva scaricato sull’altra le responsabilità dell’accaduto.
Ormai è chiaro che è in corso un braccio di ferro tra Bruxelles e Mosca, con Kiev contesa come potenziale membro delle rispettive aree di libero scambio.
Il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov ha tentato di gettare acqua sul fuoco, escludendo, in una dichiarazione, che l’iniziativa di Gazprom sul debito del’Ucraina non è assolutamente una ritorsione contro Kiev, ma una normale procedura commerciale tra patners in affari.
Ma la situazione non può non essere intesa nei suoi reali termini. A Soci, il 28 novembre si è avuto un incontro ulteriore tra Putin e il presidente ucraino Victor Ianukovich, in cui si discute del problema, con Putin che cerca ad ogni costo di impedire che l’Ucraina  sfugga dalla zona di libero scambio russa.
Mentre i due leader erano a colloquio, il ministro degli esteri ucraino, Leonida Zozharaha ribadito la recente porposta di Kiev di istituire un Consiglio economico con rappresentanti dell’Ucraina della UE e dell’Unione doganale di Russia Bileorussia e Kazakhstan per avvicinare tutte le parti coinvolte.
 (chi non desidera ricevere questo post è pregato di comunicarlo a: geografia2013@libero.it)



venerdì 25 ottobre 2013

Regno Unito: Dopo Margaret Tachter, l'Irlanda

L’insieme di Irlanda del Nord, Galles, Scozia e soprattutto Inghilterra sembra dimostrarsi un regno sempre meno unito. La spinta irridentista mossa dalle minoranze è solo una delle tante sfide che questo paese ai confini dell’Europa deve porsi. Dopo la scomparsa di Margaret Thatcher e forse di tutto il thatcherismo, c’è da chiedersi come siano cambiati la Gran Bretagna e l’Irlanda del Nord e quanto la Lady di ferro ed il suo governo abbiano plasmato il profilo attuale di questo paese. In particolare, in Irlanda del Nord, il suo governo ha dovuto affrontare trent’anni di scontri armati. La questione irlandese è una pesante eredità che i governi succeduti a Margaret Thatcher si sono tramandati e tutt’ora devono affrontare, dimostrando però idee ben alternative a quelle della Lady di ferro.
Il suo nome, completo del titolo, era Margaret Thatcher, Baronessa Thatcher di Kesteven. Il suo diminutivo era però Tina. “There Is No Alternative”. Non c’erano per lei alternative alle sue scelte politiche ed economiche. La sua dottrina economica è stata dura, la sua politica severa. Il suo fine ha però per lei sempre giustificato i mezzi – o forse per lei non era neanche necessario giustificarsi. Di alternative forse ce ne sono sempre state e lei ne ha vagliate tante. Dopo la fine della sua premiership, ad esempio, dichiarò che lei avrebbe fatto scelte alternative rispetto al Trattato di Maastricht. Lady Thatcher si è sempre, infatti, dimostrata contraria all’Unione Europea e alla moneta unica. Qualche anno dopo commentò che tutti i problemi vengono dall’Europa e tutte le soluzioni dal Regno Unito. Margaret Thatcher ha sempre difeso tutte le sue scelte in materia di politica estera con molto orgoglio. Per la questione libica, ad esempio, sottolineò a Tony Blair le loro visioni alternative relative a Gheddafi:
Fece altresì tutto il suo possibile per promuovere la fine dell’apartheid in Africa. Avviò il processo di decolonialismo di Hong Kong promuovendola come regione ad amministrazione speciale.
Lady Thatcher era favorevole alla pena di morte. Era favorevole all’aborto. Era favorevole all’uso del nucleare come fonte di energia ma anche come deterrente militare. Sottolineò il pericolo del buco dell’ozono e delle piogge acide. Adotto precauzioni e punizioni severe contro la violenza negli stadi. Non trattò mai con i terroristi, come gli Arabi che assediavano l’ambasciata iraniana a Londra. Non scese mai a compromessi con i sindacati né con i manifestanti, usando sempre il pugno di ferro. Era malata di cuore, colpita da infarti ed ictus, sofferente di Alzheimer iniziò un comizio dicendo:
Lady Thatcher è morta l’8 aprile 2013. “E’ un mondo vecchio – ha detto alla fine – ma è divertente”.
La questione irlandese è una pagina insanguinata della storia del Regno Unito e in cui Margaret Thatcher, suo malgrado, ha avuto un ruolo da protagonista. Trent’anni di rivolte e di terrorismo sono passati alla storia con l’espressione vaga, distratta, di “the troubles”. Ufficialmente, iniziarono il 12 agosto del 1969 con gli scontri di Belfast e Derry, dove già si sperimentò la violenza che avrebbe caratterizzato i decenni a venire1. Gli scontri anche molto violenti tra la minoranza cattolica e la maggioranza protestante c’erano già da anni ma sarebbe stata solo la crisi economica degli anni ’70 a indurre agli scontri più efferrati che porteranno all’intervento delle forze armate del governo inglese in massa. I Cattolici vivevano da sempre discriminati dai Protestanti, senza riuscire a farsi assumere né a farsi eleggere e nemmeno ad ottenere l’affidamento delle case popolari. Non è stata la sola religione però a causare i disordini. Si deve sottolineare come la minoranza cattolica fosse anche spinta da desideri irridentisti e da un forte nazionalismo irlandese e denunciasse la Gran Bretagna di colonialismo. Furono questi fattori, sorretti da un contesto di crisi economica, a portare nel giugno 1970 ai disordini che videro la chiesa cattolica di Saint Matthew di Belfast assediata ma ben difesa. Gli assalitori protestanti in parte furono uccisi da membri del movimento IRA Provvisorio2.
Il governo inglese impose pochi giorni dopo il coprifuoco nella zona cattolica e la perquisizione delle abitazioni alla ricerca delle armi. Un anno dopo, il governo introdusse la possibilità di internare senza processo (“Operazione Demetrius”) e centinai di Cattolici di ogni età furono così arrestati. Nel frattempo non mancavano attacchi di terroristi protestanti. Infine, la domenica del 30 gennaio 1972, la Bloody Sunday, un corpo di paracadutisti colpì dei manifestanti cattolici uccidendone quattordici. A Marzo il governo sospese il parlamento nordirlandese assumendo direttamente il controllo del territorio. Scontri, disordini ed esplosioni si verificarono quotidianamente da ambo le parti. Belfast era diventata una città fantasma, in mano all’unità di matrice anticattolica passata alla storia come i macellai di Shankill.
Come avrebbe potuto affrontare il governo di Margaret Thatcher la crisi? La violenza e le sommosse furono condannate, i combattenti criminalizzati, i detenuti furono surclassati da “prigionieri politici” a comuni criminali. Invece di continuare a combattere contro i Cattolici nordirlandesi usando il proprio esercito, il governo inglese decise di arruolare quasi esclusivamente i Protestanti del luogo. Nuovi carceri furono costruiti per i detenuti irlandesi. L’IRA reagì in primo luogo colpendo questi carceri e aggredendo il personale carcerario (all’interno dei carceri ci furono invece insanabili sommosse e diverse evasioni). Di fronte tutto questo, Margaret Thatcher rimaneva inamovibile: non avrebbe trattato con chi si era macchiato di terrorismo.
Da uno dei carceri partì uno sciopero della fame, sospeso al cinquantatresimo giorno dopo una vaga e non confermata rassicurazione da parte del governo inglese. Quando invece si scoprì che il governo non avrebbe fatto concessioni, un secondo sciopero della fame prese luogo. Il 5 maggio 1981 morì il primo scioperante, Bobby Sands, membro dell’IRA, seguito poi da altri nove detenuti. Nel frattempo, mentre gli scontri proseguivano incessantemente, il movimento cattolico trovò una strana rappresentazione parlamentare nel partito di Sinn Féin. Sin dall’inizio dello sciopero della fame, Margaret Thatcher si era rifiutata di trattare con l’IRA. Già nel 1979 l’IRA aveva ucciso Lord Louis Mountbatten, cugino della regina. Margaret Thatcher sarebbe stato il prossimo obbiettivo. Nell’ottobre del 1984, una bomba al Grand Hotel di Brighton, dove si stava tenendo il congresso del suo partito, esplose e solo per poco non la uccise. Morirono invece altri cinque membri del suo partito. Nel 1987 fu scoperto un traffico di armi tra l’IRA conla Libia di Gheddafi. Si trattava di centinai di tonnellate di armi di ogni genere, in massima parte non rinvenuta poi dal governo inglese, che comprendevano anche missili terra-aria ed esplosivo. Nel 1991, l’IRA fece esplodere una bomba nel cortile del numero 10 di Downing Street, dove John Major, il capo del nuovo governo successo a quello thatcheriano, stava tenendo una riunione.
Solo tre anni dopo, l’IRA annunciò la cessazione delle operazioni militari, imitata poi dai protestanti. Fu il primo vero passo verso la riappacificazione ma qualcosa andò storto: John Major, memore dell’attentato, non acconsentì alla partecipazione di Sinn Féin alle trattative e chiese all’IRA di consegnare tutte le armi al governo inglese. L’IRA di tutta risposta ruppe la tregua e fece brillare dell’esplosivo a Londra. Il conflitto ripartì ma ormai, dopo venticinque anni, aveva perso intensità. Nel 1997 il laburista Tony Blair vinse di netto le elezioni. L’IRA ripristinò la tregua – anche se una parte dei suoi combattenti continuò lo scontro. Il 10 aprile 1998, giorno di Venerdì Santo, Tony Blair e il premier irlandese Berie Ahern firmarono l’accordo di Belfast. Il governo dell’Irlanda sarebbe stato affidato a rappresentati cattolici e protestanti (in proporzione al risultato delle elezioni). I detenuti appartenenti alle organizzazioni paramilitari furono rilasciati. Persino gli esponenti del Sinn Féin poterono prendere parte del nuovo governo.
L’IRA non ha mai consegnato le armi, sebbene a partire dal 2001 ha acconsentito a farle ispezionare periodicamente per verificare che non siano usate. Si sono detti pronti a distruggerle (ma mai a cederle al governo inglese) e hanno annunciato la fine della lotta armata ma senza sciogliere l’organizzazione. Hanno dichiarato di voler proseguire nel loro obiettivo esclusivamente con mezzi pacifici. Resta prefissata la riunificazione delle sei conteee del Nord con la Repubblica d’Irlanda. Nel 1986 nascono il Republican Sinn Féin e il Continuity IRA, costole dissidenti dei rispettivi movimenti da cui ereditano anche alcunileader. Tutt’ora il Continuity IRA continua la sua lotta armata mirante alla liberazione del suolo irlandese dal governo inglese. Il suo ultimo attacco risale al 9 marzo 2009 (a due giorni da un attacco del Real IRA)3. Il Real IRA nasce nel 1997 per opera di dissidenti dell’IRA che si opponevano al processo di pace, veterani ed esperti artificieri. Dopo aver causato una prima strage nel 1998, hanno dichiarato il cessate-il-fuoco. L’organizzazione resta attiva con circa 600 unità e occasionalmente compie qualche attentato. Nel 2011 hanno dichiarato di voler espandere la lotta armata e di avere in progetto degli attentati con armi da fuoco ed esplosivi4 e 5.
Per quanto riguarda invece l’Official IRA, nel 2009 ha accettato di smantellare le sue scorte di armi, processo che si è concluso dopo pochi mesi ed è stato confermato dalla International Independent Commission on Decommissioning6. Nel 2005, l’IRA ha annunciato ufficialmente la fine della lotta armata. Dopo le elezioni del 2007, il partito protestante è diventato la prima formazione politica in Irlanda del Nord e il Sinn Féin la seconda. Ciò nonostante il 23 febbraio 2010 è esplosa un’autobomba a Newry. Il 21 giugno 2011 sono esplosi diversi scontri a Belfast con i manifestanti armati di molotov, razzi, armi da fuoco. Sotto la cenere, potrebbero dormire ancora dei fuochi che sembrano spenti. Per vedere la conculsione, o almeno il capitolo successivo, di questa storia probabilmente si dovrà attendere l’evoluzione di un percorso analogo, quello della Scozia. Se la Scozia riuscirà in tempo breve ad ottenere la separazione dal resto del Regno Unito, inevitabilmente questo in Irlanda farà riemergere il vecchio irridentismo. Si rimanda all’analisi della situazione della Scozia per poter comprendere ciò che resterà del Regno Unito.

Marco Flavio Scarpetta è dottore in Giornalismo, editoria e scrittura (Università di Roma Sapienza)

1.- Per una visione più completa si rimanda a “Storia dell'Inghilterra. Da Cesare ai giorni nostri” di Morgan Kenneth O. pubblicato da Bompiani nella collana Storia.
2.- Nel 1922, dopo il fallimento della guerra di indipendenza irlandese, una parte dell'esercito repubblicano irlandese (Irish Republican Army) continuò a combattere contro la presenza britannica in Irlanda. Nel 1969, si divise in Provvisorio ed Ufficiale, entrambe organizzazioni militari nazionaliste. Il Provvisorio è nato per prendere le distanze dal resto dell'organizzazione ritenuta inefficace e di tendenze socialiste. L'Ufficiale è rimasto in combattimento contro l'esercito britannico fino al 1972. Non ha mai riconosciuto il Provvisorio ed ha combattuto anche contro di esso.
3.- TGCOM 24, "Attacco in Ulster,ucciso poliziotto", 2009. [On line] http://www.tgcom24.mediaset.it.Consultato il 28 settembre 2013.
4.- Les enfants terribles, "Real IRA minaccia intensificazione degli attacchi", 2011. [On line]http://www.lesenfantsterribles.org. Consultato il 28 settembre 2013.
5.- The Guardian, "Real IRA admits bomb attacks on Northern Ireland banks", 2011. [On line]http://www.theguardian.com. Consultato il 28 settembre 2013.
6.- Per questo ed altri report, consultare l'archivio CAIN University of Ulster [On line]: http://cain.ulst.ac.uk.Consultato il 28 settembre 2013.

venerdì 18 ottobre 2013

Turchia: le riforme per la democratizzazione

Riforme in Turchia
La politica degli scacchi di Ankara
Emanuela Pergolizzi
10/3/2013
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Sebbene il primo ministro turco Recep Tayyip Erdoğan abbia ben mosso l'alfiere delle riforme sullo scacchiere bicromo della politica turca, la partita è lunga, imprevedibile e tutta ancora da giocare.

Matrioska turca
Dalle ceneri delle proteste di piazza Taksim, con il pacchetto di “riforme di democratizzazione” presentato il 30 settembre, il governo gioca a sorpresa la pedina meno visibile, quella al fondo dello scacchiere. Con una sola mossa cerca di ricalibrare gli equilibri dell'intero gioco.

Con il suo savoir-faire mediatico, il premier aveva annunciato da giorni la presentazione di un pacchetto che avrebbe dovuto - in un sol colpo - superare l'impasse turco-curda, riformare il sistema elettorale e rinvigorire le aspirazioni democratiche del paese.

Di fronte a tali aspettative l'annuncio riformista non poteva che essere deludente. Nel commentare il pacchetto l'opposizione ha usato il noto proverbio turco: “dalla grande montagna è uscito un topolino”.

Un'analisi più attenta, tuttavia, rivela come il “pacchetto democratico” sia più coraggioso del previsto, aprendo - come una matrioska politica - tante finestre su temi più caldi del dibattito politico turco.

Riforma elettorale e istruzione
Il vero successo riguarda la riforma elettorale. A qualche mese dal test politico delle municipali, previste per la primavera 2014, il governo avvia una profonda revisione del sistema elettorale turco che beneficia, in primis, i partiti minori.

Sarà finalmente modificato lo sbarramento del 10% che ha storicamente escluso dalle aule parlamentari le frange estreme del panorama politico turco: i deputati curdi del partito della Pace e della Democrazia, Bdp, da un lato e gli ultra-nazionalisti del Mhp dall'altro.

Si riduce ufficialmente, inoltre, dal 5 al 3%, la soglia di voti necessari ai partiti per ottenere finanziamenti pubblici per la campagna elettorale. Infine, concessione diretta alla minoranze, dalle prossime elezioni sarà possibile fare propaganda “in lingue e dialetti” diversi dal turco.

Più deludenti i progressi nel campo dell'istruzione.

Ben accolta l'abolizione del divieto kemalista dell'utilizzo delle “lettere curde”:“W”, “Q” e “X”. Tuttavia, a far discutere, è l’insegnamento in lingua curda. La possibilità viene accordata, ma solo agli istituti privati. Se si considera che le province meridionali dove la minoranza curda risiede sono tra le più povere del paese, è facile capire perché questa viene percepita come una misura insoddisfacente.

Le novità introdotte rivelano un'apertura importante di Ankara verso le sue “minoranze ignorate.” Anche i greci-ortodossi e gli alevi, i grandi assenti della riforma, sembrano in qualche modo godere di riflesso il clima di apertura in attesa di possibili futuri avanzamenti.

Il pacchetto non basterà, tuttavia, a ricucire le sorti del processo di pace turco-curdo, bruscamente interrotto il 9 settembre. Per i deputati del Bdp che per mesi hanno sollecitato il governo le concessioni sono modeste e tardive: “le condizioni di Ocalan non sono migliorate, la soglia elettorale non è stata ancora abolita, i nostri compagni - il riferimento è alle decine di giornalisti in carcere - non sono stati liberati - commenta la parlamentare Danış Beştaş - non è abbastanza”.

I curdi sono decisi a non cedere al braccio di ferro con il governo e il premier dovrà mostrare una reale volontà di proseguire le riforme se vuole riavviare il processo di pace.

Laici perdenti
A piccoli passi il governo lancia comunque un forte segnale: Erdoğan ha ripreso in mano il gioco, ed è pronto a rilanciare.

L'unico vero perdente è la torre dell'establishment laico, ferito dall'ennesimo colpo di coda islamico-conservatore. Dal 30 settembre anche il personale dei pubblici uffici potrà infatti indossare il velo. Siamo davanti alla morte simbolica dell'ideale di neutralità dello stato kemalista.

Anche l'Unione Europea ha accolto con favore le riforme, ribadendo che ne terrà contro nel Progress Report del 2014. Unica nota grave, commenta, è l'assenza di riferimenti al codice penale e alla legge contro il terrorismo grazie ai quali decine di giornalisti sono tutt'ora tenuti in carcere.

Ma non potrebbe essere proprio l'Europa a influenzare la pendenza dello scacchiere, influenzando le linee su cui si muovono gli attori politici turchi? Ankara si prepara a un inverno caldo. Per ora è prematuro prevedere quali saranno le prossime mosse dei suoi invisibili giocatori.

Emanuela Pergolizzi è laureanda presso l'Università di Torino e Sciences Po Grenoble. Ha svolto un tirocinio presso l'IAI nel quadro del progetto “Global Turkey in Europe”.
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lunedì 14 ottobre 2013

Geopolitica: I forum Eurorusso

26 settembre, 2013 Redazione Europa Nessun commento
A Palazzo Marini il primo Forum Euro-Russo dell’IsAG
Martedì 24 settembre 2013, presso la Sala delle Colonne di Palazzo Marini (Camera dei Deputati) nel centro di Roma, si è tenuto il primo seminario internazionale del Forum Euro-Russo organizzato dall’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) e dall’Institut de la Démocratie et de la Coopération (IDC) di Parigi. Nel corso dell’evento si è discusso dello stato dei rapporti tra l’Europa e la Russia sotto una triplice angolatura – la sfera della sicurezza continentale e della lotta antiterrorismo, il presente e il futuro della cooperazione economica, i legami culturali e scientifici – attraverso tre sessioni di lavoro ove sono intervenuti alcuni fra i maggiori specialisti internazionali dei singoli argomenti.
I lavori della conferenza sono stati aperti dai saluti dell’On. Andrea Colletti, che ha ringraziato gli organizzatori a nome della Camera dei Deputati, dei Presidenti Tiberio Graziani per l’IsAG e Natalija Naročnickaja per l’IDC, e dell’Ambasciatore della Federazione Russa presso la Repubblica Italiana Sergej Razov. Nel salutare i relatori e gli ospiti presenti, Razov ha sottolineato come la Russia guardi all’Italia nella duplice veste di Paese membro dell’UE e di Stato mediterraneo con cui Mosca ha una consolidata tradizione di rapporti commerciali, culturali e politici, auspicando che i rapporti futuri siano improntati a una maggiore concretezza nelle decisioni.
Dario Citati
Proprio sull’ampiezza dello spettro semantico della definizione “Forum Euro-Russo” si è concentrata la prolusione iniziale di Dario Citati, Direttore del Programma “Eurasia” dell’IsAG e moderatore delle tre sessioni di lavoro. Il Forum va inteso come una piattaforma dove fare il punto sui rapporti tra Federazione Russa e Unione Europea e al contempo su quelli fra la Russia e i singoli Stati europei. Si tratta di due piani non sempre coincidenti, perché talora si è osservato che il livello bilaterale registra una capacità di cooperazione assai maggiore rispetto a quello che si realizza in sede comunitaria. Tuttavia, gli eventi degli ultimi mesi – il G-20 di San Pietroburgo, le posizioni sulla crisi siriana, i tentativi di superare la crisi economica – sembrano dimostrare che i rapporti euro-russi possano oggi diventare positivi come forse non lo sono mai stati in passato.
Aleksandr Gruško
Nel panel dedicato alla sicurezza continentale, il primo intervento è stato pronunciato dall’Ambasciatore della Federazione Russa presso la NATO Aleksandr Gruško. Egli ha rimarcato come gli eventi più recenti, in particolar modo il caso della Siria, abbiano consentito a molti osservatori di parlare d’una vera e propria rinascita della diplomazia classica come strumento per affrontare i temi più difficili delle relazioni internazionali, soppiantando l’approccio unilaterale che ha dominato in molti frangenti del post-Guerra Fredda. Proprio da questa base possono ripartire anche i rapporti tra la Russia e la NATO, che negli ultimi anni sono stati gravati da una mancanza di fiducia reciproca che occorre ricostruire.
Giovanni Brauzzi
Giovanni Brauzzi, Direttore Centrale per la Sicurezza del Ministero degli Esteri, ha aggiunto che occorre ritornare allo “spirito di Pratica di Mare”, ovvero al clima che fece da sfondo agli accordi siglati nel 2002 tra Russia e NATO, quando si passò da un formato 19+1 ad un approccio in cui la Russia si interfacciava in modo più diretto con i singoli membri dell’Alleanza Atlantica. Alcune scadenze prossime, come la nomina del nuovo segretario NATO nel 2014, possono rappresentare in questo senso dei segni tangibili di un ritorno ad un approccio collaborativo.
Andrej Volodin, professore presso l’Accademia Diplomatica e l’Accademia delle Scienze russe, ha invece tenuto un intervento dedicato all’Unione Eurasiatica e all’importanza che questa nuova realtà può rivestire anche per la sicurezza europea. L’aspetto più importante in questa direzione è rappresentato dal progetto di inaugurare una nuova industrializzazione su larga scala, in cui potranno essere coinvolti anche i Paesi europei beneficiando di strutture in grado di consentire un maggior coordinamento internazionale della sicurezza in ambito continentale.
Paola Brunetti, Natela Šengelija, Dario Citati, Tiberio Graziani
Nel secondo panel, dedicato alla sfera della cooperazione economica, sono intervenute Natela Šengelija, Presidente della Rappresentanza Commerciale della Federazione Russa in Italia, e Paola Brunetti, Dirigente presso il Ministero dello Sviluppo Economico. Entrambi gli interventi hanno illustrato aspetti tecnici attraverso un’esposizione rivolta ad un pubblico ampio, concentrandosi in particolare sulle relazioni economiche italo-russe: la 23esima sessione della Task Force italo-russa che si terrà a Torino il 12 novembre 2013, il recente progetto di costruzione del Superjet 100 grazie alla collaborazione Alenia-Sukhoi, l’anno incrociato del turismo nei due Paesi che sarà previsto per il 2014. Sono tutti aspetti che confermano la complementarità fra due Paesi che hanno peraltro una necessità comune per il futuro: quella di valorizzare le realtà locali e “periferiche”, colmando i divari di sviluppo interni a ciascun sistema-Paese.
Ekaterina Narochnickaja, Natalija Narochnickaja, John Laughland, Roberto Valle, Tiberio Graziani
La terza sessione di lavoro è stata aperta dal professor Roberto Valle, docente di Storia dell’Europa Orientale presso l’Università Sapienza di Roma, che ha inquadrato la cultura russa all’interno di una prospettiva paneuropea. Per recuperare un’intesa in termini culturali, la decostruzione dell’immaginario europeo sulla Russia come terra di barbarie deve andare di pari passo con la percezione rinnovata dell’Europa come “patria dei santi miracoli” – cioè come faro di civiltà – da parte della Russia.
John Laughland, Direttore dell’Institut de la Démocratie et de la Cooperation, ha invece analizzato il rapporto russo-europeo concentrandosi sull’inedita sintonia tra il Cremlino e la Santa Sede, che sembra aver avuto un riscontro concreto nella proposta russa sul controllo delle armi chimiche siriane, in ottemperanza all’auspicio del Vaticano. Mettendo a confronto i diversi messaggi di auguri che i Capi di Stato hanno rivolto a Papa Francesco all’indomani della propria elezione, Vladimir Putin è stato in assoluto l’unico a fare esplicito riferimento ai valori cristiani come terreno comune per costruire buone relazioni. Laughland ha ricordato anche la visita di Dmitrij Medvedev a Notre Dame di Parigi nel 2010, per pregare davanti alla Corona di spine portata nel 1239 da Luigi IX di Francia, una delle reliquie più care alla cristianità occidentale. Malgrado la differenza confessionale, la Russia sembra oggi avere a cuore la tradizione europea più degli Europei stessi.
Ekaterina Naročnickaja, professore presso l’Accademia delle Scienze di Russia, ha sottolineato come molte crisi internazionali rivelino non soltanto interessi geopolitici diversi, ma anche lo scontro di diverse visioni morali: ad esempio il caso della Siria, che al di là delle strategie ha visto il riproporsi di un atteggiamento egocentrico da parte occidentale.
Nell’intervento conclusivo di Natalija Naročnickaja si è insistito ulteriormente sulla difesa del diritto naturale in Russia e su come la cultura odierna in Europa, impregnata di secolarismo postmoderno, fraintenda e mistifichi la posizione russa. Molte tendenze politico-culturali che vengono presentate come l’ampliamento di nuovi diritti costituiscono in realtà una vera e propria rivoluzione antropologica, tesa ad annientare i valori della famiglia e di tradizioni culturali e religiose millenarie che hanno reso l’Europa un modello di civiltà per il resto del mondo. La crisi demografica ed economica che vive il mondo europeo va di pari passo con la sua perdita di attrattiva sul piano culturale, che solo una maggiore valorizzazione del proprio passato potrebbe invertire.
Le conclusioni di Tiberio Graziani, presidente dell’IsAG, hanno infine rimarcato come la vastità degli argomenti trattati al Forum riflettano le enormi opportunità di discussione e approfondimento che le controparti russa ed europea devono sfruttare per trovare la propria collocazione nel futuro assetto multipolare del mondo

lunedì 7 ottobre 2013

I Rapporti difficili con Albione

Regno Unito e Ue
Londra, biglietto di sola andata
Rocco Cangelosi
23/09/2013
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Un'Europa flessibile, à la carte, dove Londra può scegliere quello che gli è più conveniente Questa l’immagine tracciata dal premier britannico durante il discorso pronunciato a inizio anno quando ha lanciato il referendum sulla partecipazione della Gran Bretagna all'Unione europea da tenersi nel 2017.

Un disegno chiaro e al limite onesto che mostra il tipo di Europa che gli inglesi vorrebbero, libera da eccessivi vincoli istituzionali e incentrata su quel mercato unico, di cui Cameron rivendica la paternità britannica.

Europa elefantiaca
Secondo Cameron, l'Unione europea si è trasformata in un organismo elefantiaco e complesso che ha perso il suo diretto rapporto con i cittadini. Se altri paesi vogliono andare avanti con l'integrazione lo facciano pure, a condizione che Londra mantenga il suo droit de renard e, ove necessario, il diritto di veto su questioni prioritarie che la riguardano.

Secondo Cameron, la Gran Bretagna deve negoziare un nuovo accordo con l'Unione europea che sia nell'interesse "non solo del Regno Unito, ma anche dell'Europa". Spingere i paesi europei a far parte di un'unione politica centralizzata sarebbe un grande errore.

La Gran Bretagna non vi parteciperebbe mai. Sono troppo diverse le tradizioni, la storia e soprattutto le economie dei paesi membri per essere riconducibili in un unico contesto che non sia dotato della necessaria flessibilità.

Conseguenze dell’eurozona
Cameron ha preso atto della trasformazione storica determinata dall'adozione della moneta unica e delle politiche che l'eurozona ha dovuto adottare per difenderla. L'euro è un progetto politico oltre che economico e non può fallire, ma ciò comporta una diversa organizzazione costituzionale dell'Unione.

Una eurozona sempre più integrata dovrà relazionarsi con i paesi che non ne fanno parte. Se i ministri dell'eurogruppo agiranno in modo coordinato all'interno del consiglio dei ministri Ecofin si formerà una maggioranza permanente in grado di imporre agli altri paesi le proprie scelte.

È una posizione inaccettabile per l'Inghilterra, che ritiene finita l'epoca del progetto unico per l'Europa che si era voluto tenere in piedi ricorrendo a aggiustamenti di ingegneria istituzionale, come le cooperazioni rafforzate, gli opt out, le avanguardie etc.

Finalità diverse
Occorre adesso un nuovo accordo politico tra gli stati dell'eurozona e quelli che non ne fanno parte. Non si può negare la chiarezza degli obiettivi perseguiti da Cameron, ma certamente questi non coincidono con le finalità di un'Unione sempre più stretta che dovrebbe comportare un'evoluzione in senso federale.

Su questo aspetto gli obietivi britannici sono totalmente divergenti da quelli dei padri fondatori. Durante i 40 anni di appartenenza all'Unione europea, la Gran Bretagna ha sempre negoziato e ottenuto deroghe nei settori più sensibili che comportavano cessione di sovranità.

È stato così per il trattato di Shengen, per la moneta unica, per la Carta dei diritti fondamentali. I numerosi opt out di cui beneficia Londra producono gravi distorsioni nel funzionamento dell'Unione, assicurando alla Gran Bretagna un vantaggio competitivo, grazie al dumping sociale e economico di cui può avvalersi.

Si dirà che l'apporto della Gran Bretagna è determinante per una politica estera e di difesa comune, ma questa è evanescente e Londra preferisce privilegiare la speciale relazione che intrattiene con gli Stati Uniti. Il recente voto del parlamento inglese sull'intervento in Siria sembra però aver creato qualche incomprensione oltreoceano.

Piede in due scarpe
Visto che per gli inglesi l'Unione non è una finalità a sè stante, ma uno strumento di cui si avvale lo Stato nazionale, sarebbe più saggio negoziare con Londra i termini della sua partecipazione all'Unione europea, come accade ad esempio con la Svizzera, la Norvegia e altri paesi dell'Associazione europea di libero scambio.

Questo comporterebbe la rinuncia britannica a partecipare alle decisioni delle istituzioni. Un prezzo molto alto da pagare. Cameron ne è consapevole. E qui nasce l'ambiguità del suo discorso, perchè il premier reclama regole che consentano a Londra di prendere parte alle decisioni sul mercato unico - soprattutto nei settori chiave come i servizi finanziari - lasciondosi le mani libere per il resto.

Ma sarebbe ancora più alto il prezzo che l'Europa pagherebbe se continuasse a voler mantenere a tutti i costi Londra nell'Unione, negoziando condizioni sempre più al ribasso, suscettibili di vanificare i processi di necessaria cessione di sovranità.

L'Europa non può essere ridotta ad una grande area di libero scambio. Il mercato unico tanto caro agli inglesi non potrà funzionare senza una poltica economica e fiscale comune.

La posizione assunta da Cameron e il dibattito interno che ne seguirà in vista delle elezioni del 2015 e del referendum del 2017 impongono agli altri paesi europei di fare la loro scelta, senza privilegiare situazioni di comodo nascoste dietro l'atteggiamento britannico.

Inaccettabile compromesso al ribasso
Se l'Unione europea vorrà procedere nell'integrazione verso un'organizzazione di tipo federale, non potrà accettare compromessi al ribasso o regole istituzionali ambigue e pasticciate.

Il rapporto con la Gran Bretagna e con i paesi che ne vorranno seguire l'esempio dovrà essere molto chiaro. Aperto alla collaborazione e allo stretto coordinamento nei settori possibili, ma nel rispetto del principio all but institutions.

Questo è principio di cui aveva parlato Jacques Delors, poi ripreso da Romani Prodi, immaginando uno stretto partenariato economico e politico con le nuove democrazie emerse dopo la caduta del muro di Berlino, senza prevederne l'immediato ingresso nell'Unione.

Sarà interessante vedere come si comporteranno gli elettori britannici alla prova del referendum. Già nel ‘55, il rappresentante inglese abbandonò la conferenza di Messina e Londra dovette attendere l'uscita di scena del presidente francese Jacques De Gaulle per diventare membro della comunità economica europea.

Cameron è stato molto chiaro nel precisare che l'uscita dall'Unione è un biglietto di sola andata.

Fortunatamente nel Regno Unito non tutti la pensano allo stesso modo. Il sociologo Anthony Giddens sta mettendo a punto un manifesto per rilanciare il processo di integrazione europea attraverso una modifica dei trattati. L’obiettivo è la creazione degli Stati Uniti di Europa.

Rocco Cangelosi è ambasciatore, già consigliere diplomatico del Presidente della Repubblica.
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Cameron e le sue iniziative

Regno Unito e Ue
Nebbia europea sulla Manica
Antonio Armellini
23/09/2013
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L’Inghilterra di David Cameron può continuare a essere un partner attivo dell’Unione Europea? Se sì, in che misura? Gli alleati liberaldemocratici sembrano presi da un balbettio paralizzante sull’Europa, mentre i conservatori sono sotto l’influenza dall’ondata isolazionista del partito indipendentista antieuropeo Ukip. In un simile scenario sembra che il referendum annunciato sulla partecipazione della Gran Bretagna all’Unione – ma sinora non confermato – potrebbe sancire una separazione per più versi traumatica.

Non tutta l’opinione pubblica inglese è su queste linee e le voci della ragionevolezza cominciano a farsi timidamente sentire. Oltre che dalla volontà e dalle nevrosi dell’elettorato britannico, la sorte dell’Unione dipenderà in misura decisiva dalla reazione degli altri paesi membridinanzi a una simile eventualità.

Europa minimalista
Per capire l’importanza della Gran Bretagna nel futuro dell’integrazione europea, è bene chiedersi di quale Europa si intenda parlare. L’euroscetticismo che alligna nelle opinioni pubbliche di più consolidata tradizione europeista – a cominciare dalla nostra – è probabilmente figlio di un embarras de richesses e alimenta più o meno consapevolmente la progressiva rinazionalizzazione delle politiche, con buona pace delle dichiarazioni di intenti di Lisbona.

L’ipotesi di una Europa “minimalista”, sempre meno comunitaria e più intergovernativa, è un ircocervo non impossibile. In essa il contributo britannico rimane fondamentale per il completamento del processo di razionalizzazione economica intorno al mercato unico e per la costruzione di una economia aperta in linea con i dettami di un capitalismo liberale avanzato.

La Gran Bretagna resta fondamentale anche per la gravitas che lo status di media potenza nucleare può attribuire alla dimensione intergovernativa della politica estera e di difesa. La presenza inglese è importante anche per l’impegno a salvaguardare i principi di quel “recinto delle regole” dello stato di diritto e della democrazia rappresentativa che costituiscono la piattaforma irrinunciabile di quanti si riconoscono nel processo di costruzione europea, quali ne siano contenuti e finalità ultime.

Si tratta di un’Europa in linea con gli interessi di Londra da sempre. Pochi ricordano come al momento dell’adesione, nel ’72, il governo Mac Millan spiegasse che l’ingresso nella Comunità economica europea conteneva sì alcuni aspetti relativi a un’entità politica sovranazionale, ma che i rischi che essa si realizzasse erano ben poca cosa rispetto al vantaggio certo che il paese ne avrebbe ricavato sul pianoeconomico e commerciale.

Collante politico tramontato
Il mantra di una ever closer union tendenzialmente sovranazionale continua a essere stancamente recitato, quasi ad esorcizzare il fatto che un simile obiettivo appare oggi politicamente astratto. Quantomeno a ventotto. Una volta tramontato con la fine della guerra fredda il collante politico originario dei fondatori, le motivazioni che hanno indotto i paesi ad aderire al progetto comunitario sono troppo diverse perché di essa si possa parlare di altro, oltre la mera retorica.

D’altro canto, la crisi finanziaria ha messo chiaramente in luce come, senza un salto di qualità, l’intero edificio europeo rischi di crollare. Chi pensasse che la fine dell’euro potrebbe essere in qualche modo gestita, sottovaluterebbe pericolosamente l’importanza politica decisiva della moneta unica. La sua eliminazione innesterebbe una deriva euroscettica inarrestabile.

La via che si presenta è quella di un’Unione a diverse velocità, in cui la stessa sopravvivenza dell’Europa minimalista sarebbe legata alla volontà di altri di dar vita, attraverso la cessione di quote crescenti di sovranità, a modelli più avanzati di integrazione. “Più Europa” per l’euro (ma anche per la difesa) non vuol dire solo operare per salvaguardare la moneta comune, ma mettere in piedi un argine per l’insieme della costruzione europea.

Una domanda agli inglesi
Di questa Europa “avanzata” la Gran Bretagna non vorrà mai fare parte: storia, tradizioniculturali ed economia militano irrevocabilmente contro. Londra ha costantemente cercato non solo di correlare il proprio impegno comunitario a una rigida visione dell’interesse nazionale, ma di impedire che altri potessero procedere sulla via di una integrazione sovranazionale che la lasciasse ai margini.

È qui che si trova il nodo fondamentale della compatibilità o meno di una presenza della Gran Bretagna in Europa. È giunto il momento di porre chiaramente agli inglesi la domanda di come vedano il loro futuro europeo.

Chiedere se, partendo dal riconoscimento di un loro opt out generalizzato da forme più avanzate di integrazione, siano disposti a collaborare con quanti intendano procedere più speditamente sulla via dell’integrazione sovranazionale, riconoscendo come tale processo sia fondamentale per la sopravvivenza di quella parte della costruzione europea più vicina ai loro interessi.

Parlando a Chatham House, lo scorso luglio il premier Enrico Letta ha chiesto, con toni felpati, “più Europa” a Londra e Bill Emmott ha constatato lo scetticismo della City. L’imperativoposto dalla crisi esclude nuovi tatticismi da parte britannica e la costruzione europea non può permettersi il rischio dell’entropia.

Rinegoziare condizioni più eque – come ripete Cameron – ha senso solo in un quadro d’insieme condiviso: l’impressione è che ne siamo ancora lontani. Sarà bene che dalla Manica ci si convincesse una volta per tutte che, quando cala la nebbia, non è l’Europa, ma la Gran Bretagna a restare isolata.

Antonio Armellini, Ambasciatore d’Italia, è commissario dell’Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO).
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martedì 24 settembre 2013

Italia: una politica estera tutta da comprendere

Crisi in Medioriente
Siria, Italia non allineata
Roberto Aliboni
30/08/2013
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L’intervento punitivo che l’amministrazione Obama vorrebbe effettuare contro la Siria ha una base legale debole, non tanto perché manchino i motivi (l’impiego delle armi chimiche e la necessità di sovvenire alla responsabilità di proteggere la popolazione) ma perché manca il mandato del Consiglio di Sicurezza.

Inoltre, a differenza di casi precedenti, manca quel largo consenso internazionale che, a dispetto della dubbia legalità, dettero “legittimità” a interventi come quello in Kosovo. Sulla questione aleggia anche il precedente delle “prove” esibite nel 2003 all’Onu dall’allora segretario di stato statunitense Colin Powell sull’esistenza delle armi nucleari dell’Iraq che si rivelarono poi inesistenti.

Così, il parlamento britannico ha costretto il primo ministro David Cameron, sostenitore in prima linea dell’intervento, a fare marcia indietro. Ugualmente, il presidente francese François Hollande, smarcandosi dall’interventismo della prima ora del ministro degli esteri Laurent Fabius, parla della necessità di avere luce verde dall’Onu, schierandosi con la Germania.

La Lega Araba, diversamente da quello che accadde con la Libia, sostiene l’intervento ma nessun paese arabo desidera entrare nella coalizione militare destinata ad effettuarlo. La maggior parte dei paesi europei è contraria o perplessa e così le loro opinioni pubbliche. L’Italia non sostiene l’intervento, né tanto meno intende parteciparvi. Obama, rimasto solo e intrappolato nelle sue incaute red lines, prenderà le sue decisioni.

Vale la pena di riflettere sul merito della questione e sulla posizione dell’Italia. Posizione che è insolita rispetto al passato, rispetto al dibattito e alle profonde divisioni che in casi analoghi si sono avuti fra le forze politiche e rispetto al significato che nella sua politica estera ha guadagnato la cospicua presenza internazionale realizzata sin dall’inizio degli anni ‘80 con le missioni militari.

Occorre prendere in considerazione due aspetti. Da un lato, il senso di questa posizione nei confronti della specifica azione militare che gli Stati Uniti potrebbero decidere di perseguire: questo significa appunto entrare nel merito della questione chiedendosi se tale azione ha senso rispetto alla situazione in Medio Oriente e merita un appoggio oppure no.

Dall’altro, il significato che la posizione italiana riveste nell’ambito più generale della sua politica estera, cioè oltre che verso il Mediterraneo e il Medio Oriente, verso l’Europa e gli Stati Uniti, vale a dire il sistema di alleanza cui appartiene.

Troppo tardi
La lezione a suon di missili di crociera che gli Stati Uniti potrebbero dare alla Siria potrà pure infliggere gravi danni, ma non riuscirebbe a cambiare le carte della partita politica in corso. Questo sarebbe stato possibile durante la prima fase del conflitto. L’occasione è ormai passata poiché il fronte dei ribelli invece di consolidarsi politicamente e militarmente si è frammentato in blocchi contrapposti che già cominciano cospicuamente a combattersi fra di loro.

D’altra parte, le forze lealiste si sono rodate e rafforzate. L’appoggio politico esterno da parte della Russia, dell’Iran e degli sciiti libanesi ed iracheni, che all’inizio era ancora confuso e debole, si è trasformato in flussi regolari di risorse, armi e uomini ed è diventato per gli stessi alleati della Siria un impegno politico che non potrà essere certamente infranto dalla salva di cruise che la Casa Bianca invierà.

Il conflitto siriano è regionale e la sua posta è diventata molto più alta che agli inizi. Per avere un impatto occorre a questo punto entrare nel conflitto, se non direttamente almeno con un piano di alleanze sul terreno, addestramento, assistenza ai profughi e fornitura di armi di rilievo ben più ampi di quanto sia accaduto finora. Ma gli Stati Uniti e i paesi occidentali non vogliono entrare nel conflitto, probabilmente per ottime ragioni, e quindi la pioggia di cruise è destinata a restare un gesto, forse anche un bel gesto, ma nulla di più.

Nessuna vittoria desiderabile 
Il conflitto siriano si è evoluto in modo tale da non avere nessuna prospettiva desiderabile dal punto di vista occidentale. Non è desiderabile la vittoria di Assad, perché, oltre a confermare al potere un regime altamente tirannico e ormai fermamente anti-occidentale, rafforzerebbe il fronte iraniano e sciita dei nemici dell’Occidente e ne indebolirebbe gli alleati.

Non è desiderabile la vittoria dei ribelli, perché questi sono destinati a combattersi tra loro e in maggioranza appartengono a fazioni estremiste e anti-occidentali. In questo senso è vero quello che pensano molti governi, incluso quello italiano: il conflitto può avere solo una soluzione politica.

Tuttavia, la soluzione politica del conflitto è solo formalmente siriana poiché in realtà riguarda l’intera regione. Per avere un impatto militare, gli occidentali dovrebbero entrare nel conflitto. Per avere un impatto politico, dovrebbero avere una strategia che riguardi l’intera regione.

Strategia mancante
Questa strategia manca. La politica egiziana è fallita non essendo riuscita a trasformare i Fratelli Musulmani in una efficace forza di governo. Così, l’Occidente è rimasto senza quella forza politica moderata che sarebbe essenziale a un’evoluzione della regione in linea con i suoi interessi. I Fratelli Mussulmani radicalizzati, in compagnia di salafiti e jihadisti, sono un problema in più, non certo una soluzione.

D’altra parte, la politica iraniana è rimasta ferma ai negoziati nucleari mentre richiederebbe una visione e un impegno più vasti. Per inciso, si deve anche osservare che il bombardamento della Siria ci impedirà di sapere se, com’era possibile, la nuova leadership iraniana aveva delle iniziative politiche di un qualche interesse.

Questa debolezza di iniziativa politica da parte dell’Occidente riflette il fatto che fondamentalmente gli Stati Uniti vogliono sganciarsi dalla regione, probabilmente sottovalutando gli interessi che continuano ad averci, mentre gli europei sono troppo assorbiti nella loro crisi per essere realmente interessati al Medio Oriente.

Il conflitto siriano non ha una soluzione militare - come ha affermato giustamente il ministro Emma Bonino - ma è anche vero che la posizione di fondo dell’Occidente fa ritenere che forse non ha neppure una soluzione politica. Questo soluzione, occorre aggiungere, è anche fortemente ostacolata dall’assenza di ogni spirito di compromesso, specialmente da parte dei contendenti.

Inedita posizione italiana
Poiché il bombardamento della Siria non sembra avere né un senso politico né uno militare, né poter cambiare le carte in tavola, la posizione italiana ha quindi una sua razionalità. La posizione italiana, - e così veniamo al secondo punto del nostro argomento - lascia un po’ perplessi nei termini della politica estera generale del paese.

Finora l’Italia, sia pure con l’opposizione di varie forze, sia nel Parlamento sia nella società civile, ha realizzato una presenza di alto profilo nelle missioni all’estero, facendo di queste missioni il punto di leva per battere un marginalità internazionale sempre in agguato.

La posizione attuale, che non prevede una partecipazione all’intervento neppure se ci fosse un mandato del Consiglio di Sicurezza e neppure la concessione dell’utilizzo delle basi italiane (ma se l’intervento finisce nelle mani della Nato?) da parte alleata, è un cambiamento improvviso e radicale.

È anche singolare che la decisione del governo non abbia suscitato nessuna significativa opposizione da parte dei partiti e degli ambienti più attaccati alle alleanze tradizionali. È questo il risultato dell’estrema debolezza politica ed economica del paese? Che cosa significa a lungo termine questo non allineamento di un paese solitamente allineato? Che cosa significa nella già difficile posizione europea dell’Italia?

La posizione del governo non ha alle spalle nessun dibattito. Invece, un dibattito fra le forze politiche e nel paese, per quanto assorbente possa essere la difficile congiuntura nazionale, sembra necessario.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello Iai.
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Unione Europea: aspetti della Difesa

Integrazione europea 
I nuovi orizzonti dell’Europa della difesa
Michele Nones
04/09/2013
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Il Consiglio europeo del prossimo dicembre affronterà per la prima volta il tema della difesa europea. Per definire la strategia per l’integrazione del mercato europeo della difesa, il 24 luglio la Commissione ha pubblicato la Comunicazione “Verso un settore della difesa e della sicurezza più concorrenziale ed efficiente” dopo un lungo ed inedito confronto informale con gli Stati membri e con l’industria, che ha coinvolto anche l’Agenzia Europea di Difesa.

Tra accelerazioni e frenate
Come sempre avviene nel complesso quadro istituzionale e politico europeo, si sono manifestate diverse posizioni. Due i poli estremi del dibattito: da un lato chi spinge per un’accelerazione del processo di integrazione del mercato europeo della difesa nel quadro di una strategia di rafforzamento delle capacità comuni di difesa. Dall’altro chi è preoccupato soprattutto per il maggiore ruolo che acquisirebbero la Commissione e la dimensione comunitaria nel campo della difesa e della sicurezza a discapito degli Stati membri e dell’odierna dimensione prevalentemente nazionale e parzialmente intergovernativa.

Un’altra novità è il Documento di lavoro della Commissione che accompagna la Comunicazione. Il documento presenta una puntuale e aggiornata analisi del mercato europeo e, in particolare, della sua base industriale, confermandone l’importanza per il mantenimento delle capacità tecnologiche e industriali europee, ma sottolineando anche il rischio di un loro indebolimento.

Mercato di difesa comune
La Comunicazione prende le mosse proprio dall’attuale quadro del mercato europeo della difesa, evidenziandone le debolezze e i rischi di fronte alle nuove sfide internazionali. Di qui le proposte della Commissione per rafforzare la base industriale tecnologica della difesa e contribuire, in questo modo, al miglioramento delle capacità europee.

Di particolare interesse è la parte della Comunicazione che riguarda le regole del mercato della difesa. Le due direttive del 2009 non sono state ancora pienamente attuate. Una parte significativa delle acquisizioni avviene infatti al di fuori delle regole europee o utilizzando le esenzioni previste per alcune specifiche tipologie di acquisti.

Inoltre, continua a esserci una forte propensione agli acquisti nazionali che complica l’adozione di scelte basate sulla competizione. Resta, infine, scoperto il fronte della sicurezza degli approvvigionamenti perché il controllo degli investimenti esteri è messo in atto solo da alcuni paesi e ciascuno si limita a valutarli in un’ottica esclusivamente nazionale senza alcun riferimento alle possibili conseguenze sul piano europeo.

Di qui l’intenzione della Commissione di attivare un più stretto monitoraggio sull’applicazione della normativa (e, in particolare, sul ricorso alle deroghe) e, insieme, di avviare una riflessione comune sulla sicurezza degli approvvigionamenti.

Più indietro è invece la semplificazione dei trasferimenti intracomunitari da parte di molti Stati membri, fra cui l’Italia. Il nuovo sistema di controllo può, però, essere efficace solo se quasi tutti i paesi europei lo applicano. Questo è indispensabile anche per spingere le grandi e medie imprese a chiedere la loro certificazione: è una scelta volontaria che deve essere incentivata mostrandone i vantaggi e questo presuppone un’applicazione generale e ampia della licenza generale.

Quest’ultima è però demandata agli Stati membri con il rischio di creare una torre di Babele che ne può compromettere l’utilizzo. È quindi necessario un maggiore coordinamento fra gli Stati per favorire un effettivo ed efficace utilizzo del sistema della licenza generale.

Competitività e innovazione
La seconda parte della Comunicazione riguarda le misure a sostegno della competitività dell’industria della difesa. Oltre all’obiettivo di pervenire alla definizione di standard e certificazioni comuni a livello europeo, vi è l’impegno a favore delle piccole e medie imprese, definite “il cuore dell’innovazione della difesa europea”.

L’obiettivo è quello di rafforzare la collaborazione delle piccole e medie imprese con università, centri di ricerca e grandi imprese per valorizzarne il contributo alla crescita tecnologica. È un tema su cui alcuni paesi, soprattutto Francia e Regno Unito, si stanno già da tempo impegnando a livello nazionale, mentre proprio l’Italia, in cui le piccole e medie aziende sono più diffuse, non ha ancora messo in atto misure specifiche.

Una terza parte della Comunicazione riguarda la ricerca volta a rafforzare l’innovazione. La crescita tecnologica del mercato civile e l’ingresso dell’elettronica in ogni produzione e prodotto rende oggi possibile un più ampio utilizzo di componenti e parti commerciali nei sistemi d’arma.

Questo implica però che siano individuati e sostenuti anche alcuni filoni tecnologici di maggiore interesse per il settore della difesa e della sicurezza. Il prossimo avvio del nuovo Programma quadro europeo della ricerca denominato Horizon 2020 offre l’occasione per assicurare le risorse necessarie.

La Commissione intende sostenere in primis tre aree: la protezione Nbcr (nucleare, batteriologica, chimica, radiologica), i velivoli a pilotaggio remoto e le comunicazioni basate sulla tecnologia della software defined radio. Inoltre, vuole avviare un programma preliminare di ricerche volte a dare sostegno, per la prima volta, alla politica comune di difesa e sicurezza europea.

Spazio ed energia
La Comunicazione dedica poi una quarta parte ai settori di spazio ed energia. Anche in questo caso è la prima volta che viene manifestata la volontà di avviare nuovi programmi europei a sostegno delle capacità comuni nel campo della protezione delle infrastrutture satellitari, comunicazione e osservazione. È anche la prima volta che viene esplicitamente riconosciuta da parte della Commissione l’importanza delle applicazioni spaziali per la difesa e la sicurezza dell’Europa.

L’obiettivo è quello di affiancare le capacità nazionali di alcuni pochi paesi europei, fra cui l’Italia, con queste nuove iniziative comuni. L’unico neo è che non si sottolinea che l’Europa deve anche garantirsi strategicamente un’autonoma capacità di accesso allo spazio, senza la quale sarebbe limitata la sua indipendenza anche in campo satellitare.

Per l’energia, invece, è prevista la messa a punto di specifiche misure di risparmio tenendo conto dell’elevato consumo energetico delle strutture militari.

Per concretizzare questi obiettivi la Commissione prevede la costituzione di un nuovo meccanismo di consultazione con gli Stati membri, associandovi anche l’Agenzia europea di difesa e il Servizio per l’azione esterna.

Anche questa è un’importante novità. Da una parte, si riconosce che una strategia complessiva deve essere coordinata con le iniziative promosse dai singoli paesi nell’ambito delle competenze previste dal Trattato. Dall’altra, si ammette che la Commissione ha bisogno dell’esperienza accumulata soprattutto dai paesi più impegnati nel campo della difesa. In questo più stretto clima di collaborazione saranno definite sia le priorità sia i contenuti delle nuove iniziative previste dalla Comunicazione.

La strategia della Commissione rappresenta una sfida ambiziosa, soprattutto tenendo conto delle difficoltà attraversate dall’Unione sia sul piano politico sia su quello economico. Ma conferma anche che l’Europa della difesa deve andare avanti se non vuole rischiare di tornare indietro.

Spetta ora agli Stati membri, e soprattutto ai maggiori, fra cui l’Italia, assumersi le proprie responsabilità in sede di Consiglio europeo. Il governo italiano sembra molto determinato a parteciparvi attivamente e positivamente. Auguriamoci che il quadro politico interno non lo distragga e non ne mini l’azione e la credibilità.

Michele Nones è Direttore dell’Area Sicurezza e Difesa dello IAI.
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