massimo coltrinari
venerdì 15 dicembre 2017
mercoledì 26 luglio 2017
CS1. 2015 fattori di Squlibrio FS1-FS10
2015 0.3.4 Fattori di Squilibrio Descrizione
CS.1
CAPACITA’ DI SICUREZZA. FATTORI DI
RISCHIO
FS.1 A1. Fattore
storico: conflitti
FS.2 A2.
Paesi limitrofi in conflitto
FS.3 A3 Disastri
naturali
FS.4 A4 Capacità dei cittadini mostrata a fronte
delle Emergenze (guerra/disastri naturali ( Willingness to fight).
FS.5 A5 Area
geografica
FS.6 A6 Conflitti
Interni .Sfruttamento di petrolio, oro e diamanti/Sfruttamento delle risorse
strategiche
FS.7 A7 Numero
dei Visitatori del Paese preso in esame (Number of Visitors)
FS.8 A8 Relazione
dello Stato con i Paesi limitrofi.(Neight Bourg.)
FS.9 A9 Capacità
militare. (Military Capability)
FS.10 A10 Terrore
Politico
FS.1
A1. Fattore storico: conflitti
Gran
parte delle cause scatenanti di un conflitto permangono all’interno del Paese
dove si è verificato anche dopo la sua conclusione. In effetti, Paesi che
escono da un conflitto corrono il rischio, nella misura del 30%, che il conflitto
si ripresenti nei cinque anni successivi alla sua conclusione. Inoltre, la
stabilizzazione di uno Stato è un processo che può essere considerato concluso
con successo soltanto quando lo stato riesce ad evitare il verificarsi di
conflitti per un periodo di dieci anni o più.
La
possibilità che un precedente conflitto possa innescarne un successivo è legata
all’indebolimento delle istituzioni, all’impoverimento del Paese, al degrado
delle strutture produttive. Questi fattori incrementano la dipendenza del Paese
dalle risorse naturali e da attività illegali o sommerse e possono, inoltre,
aggravare le condizioni interne di disuguaglianza, esacerbare gli animi per le
atrocità e le perdite subite dalle fazioni in lotta.
Per ogni
Stato, occorre inizialmente stabilire se vi è un conflitto in corso, oppure
completato o latente. Il valore rilevato è espressione del tempo: più un
conflitto è recente , più l’indice è basso, e viceversa
FS.2 A2. Paesi limitrofi in conflitto
Gli Stati
non agiscono come entità isolate, ma alcuni fattori esterni, ed in particolare
la presenza di un violento conflitto negli Stati limitrofi, possono esercitare
una notevole influenza sulla stabilità politica di un Paese, in quanto tale
situazione conflittuale può diventare un fattore destabilizzante, che può
determinare un elevato rischio di crisi economica nel Paese in esame o
trascinarlo nel conflitto. Come si è verificato per i conflitti nell’Africa
Centrale, nell’Africa Occidentale e nel
Corno d’Africa, che hanno tutti le caratteristiche di conflitti regionali.
I Paesi
più poveri risultano essere più vulnerabili da shocks esterni sia a causa della
loro ubicazione geografica (predisposizione a rischi naturali) sia per la struttura delle loro economie (la dipendenza
da una ristretta serie di attività produttive e commerciali rende l’economia
vulnerabile dalle oscillazioni del cambio). Secondo l’Organizzazione Mondiale
di Sanità, la siccità ricorrente ha condotto all'insicurezza alimentare ed alla malnutrizione in larga scala nei Paesi del
Corno d'Africa (Eritrea, Etiopia, Gibuti, Kenia, Somalia ed il Sudan).
FS.4
A4 Capacità
dei cittadini mostrata a fronte delle Emergenze (guerra/disastri naturai (
Willingness to fight).
Questo
misura la attitudine dei cittadini alle emergenze, soprattutto la guerra ed i
disastri naturali di ogni specie e la loro resistenza, primo fra tutti alla
emergenza di maggiore rilevanza, come
detto, la guerra. Il parametro
viene dato inizialmente da 1 a
5
FS.5 A5 Area geografica
La superficie
di uno Stato rappresenta il principale aspetto della ricerca in quanto il
territorio è uno dei componenti base dello Stato stesso. In questa capacità la
superficie dello stato è vista in termini quantitativi: più ampio è il
territorio più complesse le problematiche legate alla gestione dello stesso. Da
questo dato emerge un'altra limitazione dello stato. Ovvero sotto un certo
valore lo Stato in quanto tale non viene preso in considerazione ma assegnato
ad un'altra categoria, a quella dei Microstati.
FS.6 A6 Conflitti Interni .Sfruttamento di petrolio,
oro e diamanti/Sfruttamento delle risorse strategiche.
L’analisi dei conflitti ha rivelato che il
petrolio, i minerali preziosi e la droga possono essere associati allo
scatenarsi o al prolungarsi di un conflitto, con modalità e meccanismi
differenti:[1]
Il Fattore di rischio
considerato, come parametro, è il numero dei caduti in battaglia dovuti al
conflitto in corso interno, che è definito come una incompatibilità contestata
che riguarda il tentativo e/0 del tentativo in cui l’uso della forza armata tra
i due paesi di cui uno almeno è il Governo dello Stato. Il limite di
riferimento è il numero 25 Caduti in battaglia correlati in un anno.
Fonte
Istituto Internazionale di Studi Strategici, Armed Conflict, Data Base. Il
valore va da 1 a
5 con l’intensità del conflitto bassa verso lo zero ed alta il contrario.
FS.7 A7 Numero dei Visitatori del Paese preso in
esame (Number of Visitors)
Dati relativi al numero dei visitatori del Paese
preso in esame, ovvero arrivi di persone (visitatori internazionali) per
ragioni economiche, turistiche, culturali ed occasionali ed i visitatori non
sono residenti potenziali. L’Indice va da 1 a 10 dove il valore minore e verso lo zero
Fonte www.unwto.org.
FS.8 A8 Relazione dello Stato con i Paesi limitrofi.(Neight
Bourg.)
Questo
parametro misura la attitudine dello stato a relazionarsi con i vicini, non
solo confinari. Rileva la capacità dello
Stato di avere relazioni positive e quindi capacità di prospettive. Il
parametro viene dato inizialmente da 1 a 5, con il valore minino a sinistra e il massimo a
destra. Fonte:E.I.U. Analysts. Source: Economist Intelligence Units.
FS.9 A9 Capacità militare. (Military Capability)
Dati relativi al grado della tecnologia militare
disponibile nel Paese. L’indice dimostra la capacità dello Stato in tema di
forza militare e di sicurezza disponibile. Il valore va da 1 a 5 con il valore più basso verso lo zero. Fonte:
Economist Intelligence Units.
FS.10 A10 Terrore Politico
Il Parametro
misura il valore della tenuta della Sicurezza interna ottenuta non la
partecipazione e l’assenso ma con la forza ed il terrore. Amnesty International
ogni anno pubblica un rapporto sul livello di terrore esistente nel paese
considerato. I paesi sono codificati su una scala da 1 a 5 (molto basso –alto) in base al livello di terrore del precedente rapporto di
Amnesty International e del Dipartimento degli Stati Uniti. Rapporti Paese.
Fonte Gibney M., Cornetto L., & Vood R.
Political Terror Scala
Nella media ponderazione si è messo in risalto:
il fattore guerra.
Per questa capaicità al fattore conflitto dando un
peso variamente magiore al restanti cinque.
Questa ponderazione vuole indicare il fattore
guerra per lo stato nel passato, nel presente e le sue conseguenze.
Nella alta ponderazione si è messo in risalto
Il fattore disastri naturali
Con l’Alta ponderazione si vuole un dato di
riferimento che sia il frutto di elementi non dipendenti dalla volontà dello
Stato e via via altri che via via potrebbero essere orientati in base alle sue
scelte
Per l’alta ponderazione il peso massimo è dato ai
disastri naturali, il massimo pericolo che uno Stato può affrontare; seguire
poi il fattore storico e l’area geografica, con il significato che è stato
dato. Indi la capacità militare, quale parametro relativo all’investimento
nella sicurezza, poi via ivia i parametri rimanenti come la capacità dei
cittadini di resistere alle emergenze, ed a parametro relativo alle relazioni ,
alle relazioni con i vicini
[1] - il petrolio può determinare conflitti per cambiare il governo o
esercitare il controllo di una parte del territorio (ad esempio Angola,
Nigeria, Sudan);
- l’oro e le pietre preziose possono essere
associati al perdurare di conflitti in atto (ad esempio Angola, R. D. del
Congo, Sierra Leone).
Ma occorre evidenziare la notevole influenza
esercitata dal regime politico nei confronti delle risorse naturali che possono
assumere il ruolo di Fattore di Squilibrio.
Infatti, l’effetto perverso dello sfruttamento del
petrolio si verifica principalmente in regimi non democratici, dove la
partecipazione politica è scarsa, il controllo dell’esecutivo è debole e la
possibilità d’innescarsi di meccanismi perversi nella distribuzione del reddito
da esso derivante è molto elevata.
Un’altra conseguenza perversa è che il governo può ricorrere a sistemi più
autoritari e perfino alla repressione per proteggere le risorse, acuendo le
contraddizioni e causando molte vittime.
Angola, Nigeria e Sudan non hanno un regime
democratico e si annoverano tra i Pesi più corrotti del mondo.
In Angola, dal 1975, nella regione di Cabinda,
ricca di petrolio, si oppongono al governo gruppi armati separatisti in un
conflitto che ha già fatto 3.500 vittime. I separatisti accusano il governo di
non migliorare le condizioni di vita degli abitanti di Cabinda con il ricavato
del petrolio.
In Nigeria, dal 1997,
nella regione del Delta del Niger, l’esercito governativo e le forze di polizia
si scontrano con numerose milizie armate. Queste ultime combattono per i
diritti delle comunità locali per una partecipazione migliore ai proventi dello
sfruttamento petrolifero.
Nel Sudan, dal 2003
gruppi armati in Darfur si ribellano contro il governo, che accusano di non
fare abbastanza per la popolazione locale. Il territorio del Darfur, con
un’estensione pari a quella della Francia, è la principale risorsa contesa tra
le parti in conflitto. Comunque non sia stata ancora provata la presenza di
petrolio nel sottosuolo, si sospetta che il motivo principale del conflitto sia
proprio dovuto ai potenziali giacimenti energetici della regione che, secondo
analisti, il governo vorrebbe sfruttare senza dividere i proventi con la
popolazione locale. Il conflitto ha fatto ben 60.000 vittime.
L’effetto perverso dello sfruttamento dei minerali
preziosi si è verificato in maniera evidente nella R. D. Del Congo. Dal 1996
movimenti indipendentisti finanziati con il ricavato dei giacimenti minerari
(diamanti, oro) hanno continuamente tentato la secessione della regione del
Katanga dal governo centrale, in un conflitto che ha già fatto ben 1.500.000
vittime. Il governo autocratico, per sua volta, è accusato di continua
violazione dei diritti umani e di una
dilagante corruzione. Secondo analisti dell’ONU, il rapporto tra il commercio
di armi e lo sfruttamento delle notevoli risorse minerarie congolesi è
strettissimo. Gli stessi esperti hanno evidenziato che finché il governo
congolese non avrà uno stretto controllo dello sfruttamento del settore
minerario “sarà impossibile assicurare la pace e la sicurezza nel Paese”.
Continuando
con i diamanti, Sierra Leone e Botswana sono diventati grandi esportatori di
questa ricchezza; in Botswana, in presenza di un governo democratico con
istituzioni efficienti, lo sfruttamento di diamanti è associato ad un controllo
efficace, ad una destinazione dei renditi ottenuti verso lo sviluppo
socio-economico dello intero Paese ed a un’assenza di conflitti; in Sierra
Leone la stessa disponibilità, in presenza di regimi instabili, è associata
allo sfruttamento illegale dei giacimenti di diamanti ed al sostegno di
conflitti, a punto tale che, il 5 Luglio 2000, di fronte al Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite, il rappresentante della Sierra Leone ha
dichiarato: “La radice del conflitto è e rimane i diamanti, i diamanti, i
diamanti” (il conflitto in Sierra Leone si è protratto per 10 anni, dal 1991 al
2001, ed ha causato 25.000 vittime).
Tali
elementi sono stati presi in considerazione nella valutazione dello Fattore di
Squilibrio in riferimento. Ghana, Namibia e Sudafrica, che hanno regime
democratico associato ad una assenza di conflitti, la disponibilità notevole di
oro o diamanti, non è stata considerata come Fattore di Squilibrio. Si era
proposto di individuare come Fattore di squilibrio lo sfruttamento di risorse
strategiche. Era però limitato solo ad alcuni Paesi, non a tutti quelli
considerati. Quindi si è passati ad analizzare i conflitti che queste materie
prime essenziali scatenano.
giovedì 13 luglio 2017
CS2. 2015 Fattori di Rischio FS11-FS20
CS.2
CAPACITA’ DI COESIONE SOCIALE
FS11.B1
Fazioni Etniche e Religiose. Minoranze
FS12.B2. Ostilità
verso gli stranieri
FS13.B3. Rifugiati
FS14.B4. Violenza
palesata nelle dimostrazioni
FS15.B5. Violenza
Criminale
FS16.B6. Laicità
dello Stato. Separazione tra Chiesa e Stato
FS17.B7. Funzionalità
dello Stato.
FS18.B8. Analfabetismo
FS19.B9. Processi
Elettorali
FS20.B10. Partecipazione
Politica
FS11.B1 Fazioni Etniche e Religiose. Minoranze
Una nuova sfida
per le capacità di uno Stato è rappresentata dai fenomeni transnazionali di
natura violenta quali traffico di armi, droga, risorse preziose, criminalità
organizzata, gruppi armati, gruppi terroristici, NGO, rifugiati. L’incapacità
dello Stato di reagire a tale tipo di minacce può condurre alla diffusione di
situazioni conflittuali nell’intera area regionale interessata. Tali conflitti
regionali hanno le caratteristiche di vere e proprie guerre civili che
interessano realtà locali, provinciali, nazionali e regionali senza tener conto
delle frontiere. Gruppi transfrontalieri, vicini ostili ed economie sommerse
possono ugualmente determinare l’instaurarsi di situazioni conflittuali. L’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati - United Nations High Commissioner for Refugees
(UNHCR) - stima che nel dicembre 2004 si contava un numero globale di 9,2
milioni di rifugiati, circa 2,8 milioni (31%) collocati in Africa.
Il
concetto di discriminazione fornisce un ausilio per comprendere la correlazione
tra conflitti e instabilità politica. Quanto meno il sistema è tollerante nei confronti
di una società multi-etnica e multi-religiosa tanto più è alta la probabilità che si verifichino condizioni d’instabilità
sociale. Due indicatori sono sintomatici di questo aspetto:
- la
connotazione etnica/religiosa di una elite in una società eterogenea;
-
l’esistenza di polizie pubbliche che agiscono in maniera discriminatoria nei
confronti di alcuni gruppi. Nel 2003,
una ricerca dell’University of Maryland’s Center for International Development
& Conflict Management (CIDCM) ha individuato 31 Stati africani con
minoranze etniche/religiose a rischio di azioni discriminatorie da parte del
governo o di altri settori della società. Nove Stati (Angola, Burundi, Camerun,
R.D. del Congo, Nigeria, Senegal, Sudan, Uganda e Zimbabwe) presentano la situazione
di rischio più elevato. Confermando tale ricerca, ai contrasti di natura etnica
sono attribuiti i conflitti in Burundi, Nigeria, R.D.del Congo e Sudan.
FS12.B2.
Ostilità verso gli stranieri
L’indice misura il livello di ostilità verso
quello che non è nazionale, ovvero verso le persone straniere e, più in
generale, verso il concetto di proprietà privata. L’indice ha come minimo 0 e
come massimo 4 in
un arco di valore da 1 a
4. Fonte E.I.U. Economist
Intelligence Units.
FS13.B3. Rifugiati e
Sfollati
Uno nuova sfida per le capacità dello Stato è
rappresentata dar fenomeni trasazionalidi natura violenta quali traffico di
droga, di armi, risorse preziose, criminalità organizzata, gruppi armati,
gruppi terroristici, NGO. L’incapacità dello Stato di reagire efficacemente a
tale tipo di minacce può condrre a diffuse situazioni conflittuali dell’intera
arera regionale interessata. Tali conflitti regionali possono raggiungere anche
le caratteristiche di vere e proprie guerre civili che interessano realtà locali,
provinciali, nazionali e regionali senza tener conto delle frontiere. Gruppi
frontalieri, vicini ostili, ed economie sommerse possono ugualmente determinare
l’istaurarsi di situazioni conflittuali. L’Alto Commissariato delle Nazioni
Unite per i Rifugiati United Nations Hig Commissioner for Refugees UNIHCR –in
un dato storico di dieci anni fa stimava che il numero globale dei rifugiati
nel 2004 era pari a 9,2 milioni, con 2,8 milioni ( 32%)collocati in Africa.
Il dato rilevato si riferisce ai Rifugiati per
territorio di origine ( partire dal 2010 questo indicatore include anche il
numero dei sfollati interni nel Paese. Fonte:CenterINternationalDisplacement
Monitoring. Vision of Umanity. org)
FS14.B4. Violenza
palesata nelle dimostrazioni
L’indice misura il livello di percezione della
violenza nelle dimostrazioni di protesta ne Paese. L’indice ha come minimo 1 e
come massimo 5, intesa con questo parametro una violenza molto alta. Fonte:
Economist Intelligence Units.
FS15.B5. Violenza Criminale
L’indice misura il livello di percezione della
violenza criminale nel Paese. L’indice
ha come minimo 1 e come massimo 5, intesa con questo parametro una violenza
molto alta. Fonte: Economist Intelligence Units.
FS16.B6. Laicità
dello Stato. Separazione tra Chiesa e Stato
L’indice misura il grado di consenso sociale e
coesione tra la concezione laica e la concezione clericale dello Stato,
separati e l’uni rispettosi dell’altro del Paese. L’indice ha come minimo 0,
che significa che questo grado è molto basso,
e come massimo 10, inteso con questo valore un consenso molto alto. Fonte: Economist Intelligence Units. Democrazy Index
FS17.B7. Funzionalità
dello Stato.
L’indice misura le risposte a queste domande,
volte ad una valutazione quantitativa: quale grado di libertà con ui gli eletti
al parlamento determinano la politica del Governo? C’è un effettivo sistema di
controllo e bilanciamento nell’esercizio della autorità del Governo nel Paese
considerato? L’indice ha come minimo 0 in cui le risposte hanno valore molto basso,
quasi negativo e come massimo 10 inteso questo valore come risposte positive. Fonte:
Economist Intelligence Units.
FS18.B8. Analfabetismo
L’indice misura il livello il tasso di analfabettizzazione in % della
popolazione di oltre i 15 anni di età.
Fonte: Calendario de Agostani.
FS19.B9. Processi
Elettorali
L’indice misura se le elezioni generali e gli
altri processi elettorali sono realmente competitive tra gli elettori oppure
manovrate in varia misura; e se gli elettori stessi sono liberi di scegliere in
un range ragionevole di possibilità di scelta . L’indice ha come minimo 0, che
significa che questo grado è molto basso,
e come massimo 10, inteso con questo valore un grado di libertà molto
alto. Fonte: Economist Intelligence Units. Democrazy Index
FS20.B10.
Partecipazione Politica
L’indice misura la partecipazione dei cittadini
votanti ai temi elettorali in una valutazione quantitativa nelle elezioni
nazionali e, nel contempo, prende anche in esame il rapporto dei cittadini con
la classe dei politici L’indice ha come minimo 0, che significa che questo
grado è molto basso, e come massimo 10,
inteso con questo valore un grado di libertà molto alto. Fonte:
Economist Intelligence Units. Democrazy Index
mercoledì 12 luglio 2017
CS.3 2015 Fattori di Squlibrio FS21-FS30
CS.3
CAPACITA’ DI GOVERNO.
FS.21.C1
Regime politico
FS22.C2 Global Peace Index
FS23.C3 Percezione della Corruzione
FS24.C4
Percezione della Criminalità nella
Società
FS25.C5
Popolazione Carceraria
FS26.C6
Stabilità Politica
FS27.C7
Libertà di Stampa
FS28.C8
Atti Terroristici
FS29.C9
Diritti Politici
FS30.C10
Libertà Civili
FS.21.C1 Regime politico
L’analisi effettuata prende in considerazione tre
tipi di regime politico: democrazia, “anocracy”[1] e autocrazia.
Si intende per “anocracy”
un regime politico che non risulti né completamente democratico né
completamente autocratico, essa comporta l’instaurazione di sistemi di governo
variamente “ibridi” in Paesi caratterizzati da una fase di transizione verso la democrazia. Alcuni Paesi ,
come Messico, Nicaragua, Senegal, e
Taiwan, sono riusciti a creare un regime democratico uscendo da una fase
autocratica attraverso l’“anocracy”.
Un certo numero di Paesi africani, Burkina Faso, Gibuti, Guinea, e Tanzania, ha
dato l’avvio recentemente ad una cauta transizione verso una maggiore apertura
dei propri regimi politici,.
I tre tipi di regime già menzionati sono stati
analizzati in base alle relative istituzioni politiche, in particolare:
- le modalità di selezione della classe dirigente
(per esempio: elezione, colpi di Stato, successione ereditaria);
- le pressioni esercitate sul ruolo dell’élites
(per esempio: controlli forniti dal potere legislativo e giudiziario);
- il livello di coinvolgimento del popolo nel
processo politico (per esempio: tramite i partiti politici);
- il livello di accesso della popolazione al
potere politico (per esempio: il livello di rappresentanza delle minoranze);
- la neutralità e la professionalità dell’apparato
burocratico. Il controllo dell’esecutivo e la partecipazione della popolazione
alle istituzioni hanno un consistente e positivo effetto sulla stabilità
politica. Se l’esecutivo è controllato da altri livelli governativi e se la
competizione politica è istituzionalizzata ed efficace, l’instabilità politica
è notevolmente bassa. In assenza di controlli sull’esecutivo e di effettiva
partecipazione della popolazione alle istituzioni, anche in un contesto di
notevole crescita, l’instabilità è notevole. In democrazia questi fattori
tendono ad esaltarsi reciprocamente. Attraverso le elezioni ed i partiti
politici la popolazione è coinvolta nella scelta della classe dirigente, il cui
potere è limitato dalla legge, dall’operato di una burocrazia autonoma e dalle
iniziative degli altri organi dello Stato. Nell’autocrazia la partecipazione è
limitata ad una ristretta élite che sceglie l’esecutivo, rimuovendo le
eventuali limitazioni al relativo potere,
impiegando la burocrazia in funzione strumentale, favorendo il
clientelismo ed l’assegnazione mirata delle risorse. La labilità delle
istituzioni rende le “anocracies” meno stabili e resistenti. In presenza di un
sistema parzialmente democratico, con scarsi controlli sull’esecutivo e
modesta partecipazione popolare,
l’instabilità politica è circa 10 volte superiore a quella associata a fattori
socio-economici (mortalità infantile, mercati chiusi, ecc.) : ciò è
frequente in Africa. In Africa (e nel
resto del mondo), le “anocracies”
sono spesso prossime alla crisi completa dello Stato. Le libere elezioni per un
presidente o per un primo ministro non sono sufficienti a garantire una piena
democrazia, infatti le elezioni possono essere di per se pericolose. Forti
controlli sulla classe dirigente e /o la regolare partecipazione popolare sono
necessarie per creare stabilità. Dunque i Paesi completamente democratici sono
più stabili; i sistemi autocratici, particolarmente nei Paesi con bassi livelli
di reddito, sono relativamente stabili; le “anocracies”
sono esposte ad un più alto rischio di instabilità.
FS22.C2 Global Peace Index
FS23.C3 Percezione
della Corruzione
La corruzione è riconosciuta, generalmente, come uno dei vincoli più seri
allo sviluppo di società civili. In Africa la corruzione su vasta scala è una
delle minacce più grandi alla sicurezza e sviluppo. Secondo il Trasparency International Corruption
Perceptions Index 2005, su un elenco di 159 Stati valutati, tra i 50 Paesi
più corrotti si annoverano ben 21 Paesi africani (circa metà dei Paesi del
continente). Essi sono (in ordine decrescente per livello di corruzione): Ciad,
Nigeria, Guinea Equatoriale, Costa d’Avorio, Angola, Sudan, Somalia, Kenya,
R.D. del Congo, Liberia, Etiopia, Camerun, Congo, Burundi, Sierra Leone, Niger,
Uganda, Libia, Zimbabwe, Zambia e Eritrea
FS24.C4 Percezione della Criminalità
nella Società
FS25.C5 Popolazione Carceraria
FS26.C6 Stabilità Politica
Il susseguirsi di governi e di dirigenze in tempi bresi, oppure giunti al
potere non seguendo le previste norme ( colpi di stato, rivoluzioni ecc.) è un
indicatore del Regime politico dello Stato, he palesa, qualora si
verificassero, una stabilità politica insufficiente. La correlazione tra le
norme per la formazione della classe governativa e dirigente, il suo ricambio e
la sua attività che si esplica nel tempo previsto secondo le norme previste è
un indicatore di Stabilità politica.
FS27.C7 Libertà di Stampa
La possibilità di poter pubblicare senza restrizione ogni scritto sia su
giornali che su altre forme di diffusione come i social networks è un indice indicativo
del regime politico esistete nello Stato. La possibilità dei gruppi dominanti
di influire sulla stampa e sulla comunicazione in genere è un altro indicatore
del Regime dello Stato.
FS28.C8 Atti Terroristici
FS29.C9 Diritti Politici
FS30.C10 Libertà Civili
Nella media ponderazione si è messo in risalto:
Nella alta ponderazione si è messo in risalto
[1] Il
termine inglese “Anocracy” può essere
tradotto in italiano con il termine anocracy , in maniera letterale, oppure con
il termine concettuale, con la parola “intercrazia”. Nell’uno e nel’altro caso
sono termini non di uso comune e corrente, come democrazia e autocrazia. Si
adotta, per questo lavoro, il termine inglese “anocracy” onde evitare possibili confusioni o male
interpretazione, inviando per il termine“anocracy”
alla definizione di cui sopra.
domenica 9 luglio 2017
Russia. Riscatto Possibile
La economia russa non può rimanere insensibile alla attuale
situazione. Il calo dei prezzi petroliferi e le sanzioni incrociate stanno
impattando sul quadro economico russo che d’ora in avanti punterà sui consumi
iterni e sugli investimenti. Secondo “Russia Beyond the he headlines” l’nserto
preparato e pubblicato da Rossiyskara Gazeta, non solo materie prime da
esportare, ma anche consumi ed investimenti da sviluppare saranno i “capstone”
della prospettiva economica russa. L’economia russa tenta la strada della
diversificazione per reagire alle difficoltà dovute alla recessione in atto. Il
crollo dei prezzi petroliferi, ha impattato pesantemente sul paese, che affida all’export delle commodity una parte
importante el proprio PIL. La sensazione diffusa tra gli operatori e che la
risalita delle quotazioni non sia dietro l’angolo, ancor più più lontana dopo la scoperta di un immenso
giacimento petrolifero davanti alle coste dell’Egitto da parte ella italiana
ENI, che aumenta il numero dei venditori
e sottrae un mercato come quello egiziano che si renderà autornomo..
Oltre a questo è evidente che l’OPEC non appare intenzionato al alzare le
quote, e che è in atto la frenata della crescita cinese e la distenzione tra
USA e d Iran agevolata dall’accordo sul nucleare; infine non vi sono
prospettive che nel breve periodo si superoano le tensioni in Ucraina, che
hanno portato alle sanzioni incrociate con l’UE e con l’Occidente in generale..
Proprio questo aspetto, si ossrva a Mosca, che incide sull’impennata dei prezzi
che sta caratterizzando l’inflazione , ha portato ad un cambiamento nella
produzione di cui poco si è parlato fino a questo momento.. Approvvigionarsi di
prodotti, soprattutto cerealicoli ed agroalimentari provenienti da oltre
frontiera è sempre più difficoltoso; da qui gli stimoli e le pressioni affinche
quanto non si riesce ad avere e manca sia prodotto all’interno della
Federazione, Una scelta strategica, destinata a rivestire un ruolo importante
nel medio termine una volta che verranno superate le prevedibili difficoltà
iniziali
La strada verso la ripresa potrebbe passare anche attraverso
una maggiore focalizzazione sugli investimenti pubblici, a cominciare dal nodo
infrastrutturale, decisivo per sostenere una crescita sostenibile del paese e
convincere gli investitori stranieri a
creare stabilimenti produttivi della Federazione. Lo sforzo in atto non è
semplice ed il risultato non appare scontato, ma si confida che il processo si
sia messo in moto in modo tale da perseverare che i 2016 sia veramente l’anno
della ripresa.
In pratica il Cremlino sta studiando una “exit strategy” pe
superare la doppia minaccia del crollo dei prezzi del petrolio e del gas
naturale, vera trappola in cui la Russia è caduta, quella della
“monoproduzione”, e delle sanzioni non preiste a segutio della crisi Ucraina
che sta facendo pagare alla Federazione un prezzo non preventivato e forse troppo
alto.
mercoledì 28 giugno 2017
Un successo politico concreto
Roam-like-at-home Roaming: un risultato concreto per rilanciare l’Unione Federico Palmieri 25/06/2017 |
“Roam-like-at-home”
Dopo una progressiva riduzione dei costi di roaming iniziata nel 2015, con il 15 giugno si giunge alla totale parificazione delle tariffe per chiamate e messaggi: telefonare a Roma da Parigi costerà quanto farlo da Milano. Per il traffico dati, il periodo transitorio giungerà a termine solo nel 2018, ma già da oggi le tariffe sono praticamente parificate e le offerte nazionali che prevedono l’acquisto di un pacchetto di dati sonogià valide e utilizzabili.
Rimangono alcune eccezioni. Le nuove regole sul roaming si applicano agli utenti che utilizzano la propria Sim all’estero per brevi periodi, meno di quattro mesi all’anno: è il caso di brevi trasferte di lavoro o di viaggi perturismo. Per chi invece si trasferisce stabilmente in un altro Stato membro e continua a utilizzare la propria Simpermane un sovrapprezzo, la cui entità è però trascurabile. Inoltre, bisogna osservare che non rientrano nelle nuove regole le chiamate effettuate dal proprio Stato verso l’estero, che potranno ancoraessere soggette a maggiorazioni.
Roaming e Mercato unico digitale
L’abolizione dei costi di roaming si inserisce nella strategia per la realizzazione del Mercato unico digitale, una delle 12 priorità annunciate a inizio mandato dalla Commissione guidata da Jean-Claude Juncker. Le potenzialità legate all’instaurazione di un Mercato unico digitale nel territorio dell’Unione sono significative: si parla infatti di un contributo di 415 milioni di euro l’anno all’economia europea e di centinaia di migliaia di posti di lavoro.
Per questo, dall’inizio del suo mandato la Commissione Juncker ha firmato 35 fra proposte legislative e iniziative di carattere politico. In quest’ambito, si sono già registrati i primi successi, tra cui l’accordo sulla portabilità dei contenuti - che permetterà dal 2018 di fruire di abbonamenti a servizi come Netflix e Spotify in tutta l’Unione senza restrizioni - e l’accordo sulla liberalizzazione della banda dei 700 MHz, che permetterà lo sviluppo della tecnologia 5G e di nuovi servizi digitali.
“Roam-like-at-home” si inserisce in questa serie di iniziative. La misura, secondo la Commissione, avrà effetti positivi in numerose aree economiche all’interno dell’Unione. È il caso, primo fra tutti, proprio del mercato delle telecomunicazioni. I dati della Commissione parlano di 300 milioni di potenziali nuovi clienti: si tratta di quel 94% di utenti che, fino ad ora, hanno scelto di non utilizzare il cellulare all’estero per evitare i costi del roaming. Inoltre, la fine dei costi di roaming porterà grandi benefici nell’ambito della app economy e per tutti gli online business, specie quelli legati al settore del turismo. Da non trascurare, inoltre, il risparmio per le aziende con dipendenti che si spostano nel territorio dell’Unione per affari.
Un successo politico concreto
La fine dei costi di roaming è stata salutata dalle istituzioni di Bruxelles con grande entusiasmo. In una dichiarazione congiunta, i presidenti del Parlamento Europeo Tajani, della Commissione Juncker e quello di turno del Consiglio Muscat l’hanno definita “una vera success story europea”. Secondo i tre presidenti, i costi di roaming costituivano un vero e proprio “fallimento del mercato”: la parificazione delle tariffe nel territorio dell’Unione è un “successo concreto e positivo”.
L’entusiasmo pare motivato:“Roam-like-at-home” si prospetta come un traguardo tangibile che avrà un effetto concreto sulla vita di molti cittadini. Si tratta di un risultato che ben si inserisce nel nuovo modo di raccontarsi dell’Unione europea. Dopo un annus horribilis come il 2016, il 2017 potrebbe essere, a sorpresa, l’anno della rinascita. Il reboot iniziato con la Dichiarazione di Roma, firmata dai leader dei 27 in occasione del 60° anniversario dei Trattati, va concretizzandosi con nuovi passi verso una vera difesa comune e una timida ma promettente ripresa economica.
Rinvigorita dalla vittoria delle forze europeiste in Austria, in Olanda e in Francia, l’Unione si sta riscoprendo orgogliosa di sé stessa. Misure come “Roam-like-at-home” possono integrare il quadro, contribuendo grandemente al racconto positivo dell’Ue: dopo una stagione di grandi dibattiti, l’accento torna sugli effetti positivi che le politiche dell’Unione hanno sulla vita di tutti i giorni dei cittadini europei.
Federico Palmieri è tirocinante presso il Programma Sicurezza e Difesa dello IAI, twitter @fed_palmieri.
Europa e Migranti
Ricollocazione problematica Migranti: quote, braccio di ferro tra Ue e alcuni Stati Francesco Luigi Gatta 23/06/2017 |
Detti Stati, nonostante i ripetuti richiami delle Istituzioni europee, continuano arifiutarsi di accogliere i richiedenti asilo sul proprio territorio: la Commissione passa dunque all’azione, alimentando così lo scontro sul tema dei migranti che si arricchisce ora di un nuovo capitolo.
Il meccanismo di ricollocazione
Il meccanismo di ricollocazione, nato nel 2015 come risposta all’ingente pressione migratoria, prevede, in un’ottica di solidarietà e condivisione delle responsabilità, la redistribuzione da Italia e Grecia verso gli altri Stati membri di 98.255 persone in evidente bisogno di protezione internazionale (inizialmente era previsto un totale di 160.000).
Il programma ha durata biennale e obbliga ogni Stato membro a ricevere una quota di richiedenti asilo determinata in base ai seguenti parametri: popolazione, Pil, tasso di disoccupazione e numero di richieste d’asilo accolte in passato.
Come i dati chiaramente evidenziano, a ormai pochi mesi dalla conclusione del programma, il meccanismo sta dimostrando un funzionamento ampiamente insufficiente. Secondo l’ultimo rapporto della Commissione europea, infatti, al 9 giugno, delle oltre 98 mila persone previste, ne risultano ricollocate nemmeno 21 mila.
La forte opposizione di alcuni Stati membri
Oltre a ritardi e problemi organizzativi, tra i motivi dello scarso successo del meccanismo europeo di ricollocazione ne vanno annoverati anche alcuni di natura politica: vi sono Stati membri che rivendicano sovranità ed autonomia nella gestione degli ingressi di stranieri sul proprio territorio nazionale, manifestando apertamente il proprio dissenso verso le politiche migratorie comuni dell’Ue.
Tra questi figurano, in particolare, l’Austria e un compatto blocco di Stati dell’area orientale dell’Unione, segnatamente Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. Quest’ultima, soprattutto, su iniziativa del premier Viktor Orbán, ha “lanciato il guanto di sfida” all’Ue, adottando un atteggiamento di netta opposizione nei confronti delle politiche migratorie comuni.
Oltre a discutibili iniziative unilaterali quali la costruzione di barriere e muri lungo le frontiere nazionali e il dispiegamento dell’esercito in alcune zone di confine, il governo ungherese ha adottato nuove leggi fortemente restrittive dei diritti dei richiedenti asilo e per questo criticate a livello internazionale.
Un referendum e un ricorso contro la ricollocazione
Contro la ricollocazione e il sistema di quote di migranti il governo Orbán ha indetto il referendum del 2 ottobre 2016: la votazione non ha raggiunto il quorum di validità del 50 % (affluenza pari a poco più del 43%), ma ha rappresentato comunque un delicato segnale per l’Ue, il 98% dei votanti essendosi espresso contro il meccanismo di solidarietà e redistribuzione dei richiedenti asilo.
L’Ungheria inoltre, affiancata dalla Slovacchia, ha intrapreso le vie legali per contestare la legittimità del sistema di ricollocazione, presentando un ricorso per annullamento alla Corte di Giustizia (cause C-643/15 e C-647/15 attualmente pendenti).
Oltre a argomenti di carattere procedurale, tra i motivi invocati alla base dei ricorsi si lamenta la violazione di importanti principi generali dell’ordinamento Ue: proporzionalità e necessità, democrazia, equilibrio istituzionale e buon governo.
Insomma, secondo Ungheria e Slovacchia - supportate anche dalla Polonia - l’imposizione obbligatoria di quote di migranti rappresenta un intollerabile attacco alla sovranità statale e un’illegittima ingerenza nella gestione di un settore così delicato e sensibile come quello dell’immigrazione e dell’ingresso degli stranieri sul territorio nazionale.
L’inadempimento ai propri obblighi e il rifiuto di ricollocare: la procedura d’infrazione
Già il Parlamento europeo nella sua risoluzione del 18 maggio 2017 su come far funzionare la procedura di ricollocazione aveva espresso “il proprio rammarico per il mancato rispetto da parte degli Stati membri degli impegni a favore della solidarietà e della condivisione di responsabilità”, esortando gli stessi ad adempiere ai propri obblighi.
La stessa Commissione europea, nei suoi rapporti periodici sullo stato della ricollocazione, aveva più volte criticato il mancato rispetto degli obblighi da parte di alcuni Stati membri, minacciando il ricorso alla procedura d’infrazione. Ora, di fronte al reiterato rifiuto di ricollocare, la procedura è stata aperta contro Ungheria e Polonia (che non hanno ricollocato ancora nessun migrante) e Repubblica Ceca (solo 12 migranti ricollocati dalla Grecia).
Anche l’Austria non ha ancora ricollocato nessuno, tuttavia, avendo espresso l’impegno a procedervi in favore dell’Italia, rimane, per ora, fuori dalla procedura d’infrazione. Al momento ‘salva’ anche la Slovacchia, nonostante l’esiguo numero di persone ricollocate (in totale solo 16 richiedenti dalla Grecia, nessuno dall’Italia).
Le sanzioni in cui potrebbero incorrere i governi che si oppongo al sistema di quote di migranti non sembrano al momento in grado di scalfire il profondo dissenso verso le politiche migratorie comuni. Anzi, il rischio è quello di un inasprimento delle posizioni e di un rafforzamento dell’euroscetticismo già molto forte e radicato nei paesi in questione.
Dal canto suo, la Commissione - che in base ai trattati ricopre il ruolo di custode della legalità e del rispetto del diritto dell’Unione - non poteva tollerare oltre una condotta di così spregiudicata violazione degli obblighi di ricollocazione; obblighi che, invece, altri Stati membri stanno puntualmente procedendo ad assolvere.
La questione resta aperta, certo è che l’invocazione all’unità, alla solidarietà e al rispetto delle regole comuni fatta dai leader europei nella Dichiarazione di Roma del 25 marzo 2017 per la celebrazione dei 60 anni dai trattati di Roma appare ancora teorica e difficile da realizzare.
Francesco Luigi Gatta è avvocato, dottore di ricerca in diritto dell'Unione europea presso le università di Padova e Innsbruck, cultore della materia in diritto degli stranieri e diritto costituzionale sovranazionale presso l'università degli studi di Milano
mercoledì 21 giugno 2017
La sconparsa di un Grande Europeo
Ue/Germania Morte Kohl: una lezione d’ottimismo europeo Giampiero Gramaglia 17/06/2017 |
Erano tutti lì per incontrare e conoscere Helmut Kohl, appena divenuto cancelliere della Repubblica federale di Germania. C’era, per l’Italia, Ciriaco De Mita, allora segretario nazionale della Democrazia Cristiana.
Negli ultimi anni, la Germania aveva avuto il volto politico d’Helmut Schmidt, socialdemocratico e più ‘atlantista’ che europeista, l’uomo degli euromissili, capace però anche d’abbozzare, insieme al liberale francese Valéry Giscard d’Estaing, il primo embrione di una unione monetaria europea, lo Sme.
Da Parigi a Bruxelles, da Mitterrand al Ppe
Kohl arrivò a Bruxelles da Parigi: aveva incontrato il presidente francese François Mitterrand, prima tessera di un mosaico destinato a diventare monumentale nella storia europea.
Prima di ripartire per Bonn, dopo una colazione di lavoro con il premier belga Wilfried Martens, il cancelliere, immediatamente soprannominato dai giornalisti ‘XXL’ per la sua taglia forte, volle recarsi nel palazzo allora sede del Parlamento europeo e intervenire all’ufficio politico del Ppe. Divenne così il primo capo di governo tedesco a visitare il Parlamento europeo.
Kohl fece un discorso “di accento europeista”: cito un dispaccio dell’Ansa di quel giorno - chi scrive era il cronista dell’agenzia presente all’incontro. “Gli Stati nazionali del XX Secolo devono evolvere verso gli Stati Uniti d’Europa: abbiamo forse indugiato troppo a fare il passo decisivo verso l’Unione europea”.
A chi lo ascoltava - fra gli italiani, oltre a De Mita, c’erano Flaminio Piccoli, Giulio Andreotti, Mariano Rumor, Paolo Barbi e altri -, quell’omone di 52 anni, dal volto rotondo e sorridente, disse di “non lasciarsi impietrire dal pessimismo”, anzi di “guardare avanti con ottimismo”, anche perché “abbiamo già fatto un tratto di cammino importante”.
Quelli contro l’Europa appartengono al passato
Citando grandi europeisti del passato democristiano, Adenauer, Schumann, De Gasperi, ma pure Lutero (“Anche se il mondo dovesse crollare, io continuerò a piantare il mio albero”), Kohl affermò: “L’Europa deve fare un balzo in avanti in questo decennio, se no la nostra generazione avrà fallito la sua occasione”.
Il programma del suo governo, sottolineò, avrebbe avuto “grande attenzione per i problemi dell’Europa”, anche perché “quelli che sono contro l’Europa appartengono al passato”.
A sentirle allora, parole d’ordinanza, magari di circostanza per un leader come De Mita, che commentò, con un pizzico d’ironico scetticismo: “Abbiamobuone relazioni, anzi ottime, perché ci conosciamo ancora poco”. E aggiunse: “Le elezioni in Germania sono nel 1983, da noi si vota nel 1984”, come dire “lui è sicuro di durare un anno, noi di più”.
A rileggerle oggi, subito dopo che Helmut Kohl se n’è andato, a 87 anni, sono parole che paiono profetiche e che inducono alla nostalgia - ve lo immaginate, uno dei tanti leader senza radici e aggressivi di questo decennio parlare con cognizione di causa di Stati Uniti d’Europa?. Un altro dei colleghi presenti a quell’incontro del 5 ottobre 1982, Antonio Foresi, corrispondente Rai, mi scrive: “Inesorabilmente, un altro pezzo del nostro mondo crolla”.
I tre giganti e l’icona di Verdun
Perché in quel decennio una triade di giganti, Kohl, il presidente francese Francois Mitterrand, eletto l’anno prima, e, dal 1984, il presidente della Commissione europea Jacques Delors traghettarono, con l’Italia a tenere loro bordone, l’allora Comunità economica europea verso l’Unione europea: archiviando il petulante ritornello della premier britannica Margaret Thatcher (“I want my money back”), ancorando alla democrazia europea Spagna e Portogallo, accelerando il completamento del mercato unico e, quando il crollo del comunismo aveva già cambiato dinamiche e geografie del Vecchio Continente, progettando la moneta unica.
Il decennio successivo sarà quello della riunificazione tedesca con il marco dell’Est valutato 1 a 1 con quello dell’Ovest - un’altra visione di Kohl sostenuta da Mitterrand -, dell’attuazione dell’Unione europea e poi della moneta unica, di ulteriori allargamenti. Un tempo di speranza e di fiducia europee, che aveva il suo fondamento e la sua icona nell’immagine di Mitterrand e Kohl, diversissimi per cultura, passato, appartenenza politica, che si tengono per mano a Verdun, uno dei campi di battaglia insensati della Grande Guerra, emotivamente e profondamente accomunati dall’imperativo “Mai più”.
Dei tre giganti, oggi resta solo Delors, che commenta: "Un cittadino dell'Europa ci ha lasciato.... Gli europei devono inchinarsi davanti all'uomo Helmut Kohl e alla sua azione".
Probabilmente, Kohl, nonostante l’ottimismo, neppure ipotizzava, quel 5 ottobre 1982, che sarebbero successe tante cose tanto in fretta: che lui sarebbe divenuto il più longevo - finora - cancelliere nella storia tedesca eche sarebbe stato protagonista della nascita dell’Unione europea e della riunificazione tedesca.
Anche grazie a lui, la sua generazione non ha fallito la sua occasione.
Giampiero Gramaglia è giornalista, direttore di Affarinternazionali (Twitter: @ggramaglia).
martedì 20 giugno 2017
Regionalismi sempre più accentuati
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“Il referendum è illegale e non si svolgerà”, ha subito risposto il governo centrale di Madrid, assicurando che saranno adottate tutte le misure necessarie per impedirlo. Ne è seguito uno scambio di accuse reciproco sulla mancanza di volontà di dialogo, sullo sfondo di una preoccupante incertezza su quello che effettivamente accadrà nei prossimi mesi. Come si è arrivati a questo punto Se è vero che la Catalogna - 15% della popolazione e quasi un quinto del Pil nazionale spagnolo - storicamente ha sempre avuto una propria specificità e una propria identità linguistico-culturale, il punto di flesso a partire dal quale si è innescato un rafforzamento del sentimento indipendentista (prima fisiologicamente stimabile attorno al 15-20%) si colloca nel 2010, quando una sentenza del Tribunale Costituzionale, su ricorso del Partito popolare, mutilò di ampie parti lo Statuto di autonomia catalano approvato nel 2006 con referendum regionale. Con l’arrivo al potere dei Popolari nel 2011, la situazione si è sempre più esacerbata. Da una parte, la posizione di totale chiusura del governo guidato da Mariano Rajoy verso le esigenze di maggior autonomia ha alimentato una sensazione di crescente vittimismo nella società catalana, esasperato dall’acuirsi di una crisi economica nella quale Barcellona si sarebbe vista costretta a eccessivi trasferimenti di solidarietà verso le altre Comunità autonome. Dall’altra, l’esecutivo catalano ha avuto gioco facile ad individuare nel governo centrale la causa di tutti i mali (“Madrid ci deruba”) e ha avviato un’azione di propaganda nazionalistica via via più capillare, servendosi ampiamente dei mezzi di comunicazione e del sistema educativo locale. La chiave economico-sociale, accanto a quella politico-culturale, rimane dunque fondamentale per una corretta lettura della questione catalana. Il sostegno all’indipendenza raggiunse il suo massimo - sfiorando il 50% - nel 2013, quando l’allora presidente della Generalitat Artur Mas annunciò per la fine del 2014 un referendum che poi, di fronte all’opposizione di Madrid, fu costretto a trasformare in una “consultazione partecipativa volontaria”: il 9 novembre 2014 votò solamente un terzo dei catalani, che tuttavia per l’80,76% si espresse a favore dell’indipendenza. Nelle successive elezioni regionali del settembre 2015, i partiti pro-indipendenza ottennero il 47,8% dei voti (pari però a 72 seggi su 135). L’appoggio all’autodeterminazione, dunque, non ha mai scavalcato la fatidica soglia del 50%, ma ciò non ha impedito alla Generalitat di avviare quello che a Barcellona chiamano “processo di disconnessione dallo Stato spagnolo”, ovvero la graduale costituzione di autonome strutture amministrative, a cominciare da una propria Agenzia tributaria e da una rete estera (sono già una decina le “ambasciate” catalane), nel sinora frustrato tentativo di raccogliere appoggi internazionali. A Madrid manca una strategia politica Da una parte, dunque, la Generalitat- ormai fusa in un unicum con le forze indipendentiste - continua a “vendere” il sogno demagogico di una secessione indolore come rimedio a tutti i problemi economici e sociali, anche per distogliere l’attenzione dagli scandali di corruzione che stanno travolgendo il partito di Puigdemont. Dall’altra, l’esecutivo centrale non ha saputo e non ha voluto, forse per calcolo elettorale, avanzare alcuna soluzione politica, trincerandosi piuttosto dietro una batteria di ricorsi giudiziari - amministrativi e costituzionali - contro ogni iniziativa delle autorità catalane, fino ad arrivare alla recente condanna all’interdizione dai pubblici uffici per l’ex presidente Mas. Un atteggiamento in buona parte controproducente, che ha creato “martiri”, contribuendo a fomentare l’indipendentismo. Solo il secondo governo Rajoy - entrato in carica nel novembre 2016 - ha tentato di avviare un canale di dialogo con la Generalitat su temi quali investimenti infrastrutturali, finanziamento regionale, educazione. Troppo tardi e con troppo poca convinzione. La strategia di Madrid rimane fondamentalmente attendista, affiancata da un puntuale contrasto per le vie legali, nella speranza che il progetto indipendentista imploda per le sue stesse contraddizioni e rivalità interne, aiutato in ciò dalla ripresa dell’economia nazionale. Sul tema catalano, Rajoy può del resto contare sull’appoggio non solo dell’alleato Ciudadanos, ma anche dei socialisti, principale partito di opposizione. Entrambe le forze rinfacciano tuttavia a Rajoy la sua inerzia e l’incapacità di offrire soluzioni politiche, con particolare riferimento ad una possibile riforma costituzionale che i socialisti vorrebbero in senso federale. Rischio di escalation e possibili vie d’uscita L’annuncio del referendum da parte di Barcellona è dunque solo l’ultimo di una serie di gesti provocatori del governo catalano, in un continuo gioco al rialzo che lascia intravedere il rischio (se non il deliberato disegno) di uno scontro istituzionale senza precedenti con Madrid, con possibili mobilitazioni di piazza, i cui potenziali sviluppi nessuno si azzarda a delineare. Non è chiaro fino a che punto il governo Rajoy sarà pronto a spingersi, nel caso in cui la Generalitat chiami effettivamente i catalani alle urne ed approvi la già predisposta “legge di disconnessione”, né se attiverà il sinora mai utilizzato articolo 155 della Costituzione spagnola, che permette al governo di surrogarsi nei poteri di una Comunità autonoma per garantire l’“adempimento forzoso” della legge. Per il momento, Madrid ha saggiamente optato per la moderazione, confermando che impugnerà l’eventuale convocazione del referendum, ma invitando al dialogo dentro i limiti della legalità. Secondo il governo centrale, lo scenario più probabile (o comunque più auspicabile) è quello che, di fronte all’impossibilità di svolgere il referendum, si convochino infine elezioni regionali anticipate. Ciò smorzerebbe forse temporaneamente le tensioni, ma non risolverebbe in ogni caso il problema di fondo, destinato a ripresentarsi con le sue fasi di picco cicliche. Un problema che rappresenta, insieme al superamento del bipartitismo, uno dei sintomi più evidenti di “esaurimento” dell’architettura democratica uscita dalla transizione post-franchista e del suo modello territoriale. Un modello ormai superato, poco chiaro nella ripartizione delle competenze e non sufficiente per rispondere alle domande di “specialità” da parte di alcune realtà regionali. Appare dunque necessaria una strategia proattiva, che punti a recuperare quel 20-30% di catalani convertitisi negli ultimi anni all’indipendentismo, molti dei quali tra gli elettori più giovani. Occorre approfittare della “fatigue” che la società catalana sta avvertendo rispetto ad un processo indipendentista ormai annunciato da anni, ma che sembra intrappolato in un copione che si ripete senza apparente via d’uscita. Occorre, appunto, offrire questa via d’uscita, elaborando un nuovo progetto di convivenza del Paese, che ascolti le rivendicazioni economiche catalane e consenta forme più profonde di autogoverno, pur nel rispetto del principio di solidarietà intra-regionale, e mettendo, ove necessario, mano alla Costituzione in linea con le specificità e la pluralità della realtà spagnola. Elisabetta HolsztejnTarczewski è diplomatica. Le opinioni sono espresse a titolo personale e non sono riconducibili al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. | ||||||||
lunedì 19 giugno 2017
Gran Bretagna: periodi di tempi cupi
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La May rimane capo del governo, così come sono confermati alcuni dei principali ministri del suo precedente esecutivo: Philip Hammond al tesoro, Boris Johnson agli esteri, Michael Fallon alla difesa, David Davis al ministero dedicato proprio alla Brexit. Se il nuovo governo conservatore è un segno di continuità, non lo è la sua maggioranza parlamentare. Infatti, la netta perdita di seggi da parte dei Tory fa sì che non abbiano più i 326 deputati necessari a controllare la Camera dei comuni, e debbano quindi formare un governo con l’appoggio del Democratic Unionist Party - il partito nord irlandese fedele alla corona britannica a favorevole alla Brexit. Così, l’esecutivo conterà su un’esile maggioranza di due soli seggi. Se la Brexit diventa soft La nuova situazione politica oltre Manica ha un impatto sui negoziati per la Brexit, anche se è difficile capirne l’entità. Di certo, il mandato elettorale chiesto dalla May per un braccio di ferro volto alla “hard Brexit” non è arrivato. Anzi, partiti che al referendum del 2016 si erano schierati per rimanere nell’Unione, quali i Liberal-Democratici ei Laburisti, hanno aumentato voti e seggi. Ciò rimette in discussione lo scenario di una “hard Brexit” e allontanal’ipotesi di un’uscita di Londra dall’Unione anche senza un accordo tra le parti, che la May esplicitamente contemplava quando in campagna elettorale affermava “no deal is better than a bad deal”. Sarebbe però sbagliato pensare che il risultato del referendum del giugno 2016 sia stato rimesso in discussione dal voto politico. I conservatori restano fermamente schierati per la Brexit, pur con diverse visioni su quanto essa debba essere “hard”. Una parte significativa dei deputati laburisti ha vinto in collegi che vedono una maggioranza di elettori a favore dell’uscita dall’Ue e il loro leader Jeremy Corbyn si era comunque impegnato a rispettare l’esito del referendum ed a raggiungere un accordo con l’Unione per una “soft Brexit”. Proprio la “soft Brexit” è una opzione resa possibile dall’attuale quadro politico britannico, ma non è detto che May la porterà al tavolo negoziale con Bruxelles. La premier potrebbe infatti insistere su una "hard Brexit", riguardo in primo luogo alla giurisdizione del diritto comunitario e alla libera circolazione delle persone, accompagnata però da un favorevole accordo di libero scambio con l'Ue. Bruxelles (con Berlino) ha già fatto capire che non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, ossia prendere solo gli elementi convenienti per Londra del mercato unico e lasciare gli altri; e sembra pronta a tenere il punto nei prossimi negoziati. In un braccio di ferro del genere, la Gran Bretagna si trova indebolita a causa della fragilità politica e parlamentare del suo governo. L’Unione invece nel frattempo si è rafforzata con la vittoria di Emmanuel Macron alle presidenziali francesi e si rafforzerà ulteriormente nel caso, probabile, di una vittoria del partito del presidente alle prossime elezioni parlamentari d’oltralpe. Brexit e cooperazione europea nella difesa Nel quadro generale della Brexit, il settore della difesa è tra i meno controversi, ma non per questo tra i meno importanti e complessi. Infatti, in meno di due anni si dovrà giungere a definire i futuri rapporti con l’Ue ed in particolare con l’Agenzia europea di Difesa (European Defence Agency - Eda), le modalità per un eventuale contributo di Londra alle missioni nell’ambito della Politica di Sicurezza e di Difesa comune (Psdc) e soprattutto l’accesso britannico al mercato europeo della difesa. Nel caso dell’Eda, una volta fuori dall’Ue, per Londra esistono potenzialmente due strade per cooperare oltre Manica. Una è la sottoscrizione di accordi simili a quelli in essere tra Eda eNorvegia, Serbia, Svizzera e Ucraina. L’altra, considerando la grande importanza militare e industriale di Londra, è la definizione di un accordo ad hoc, che però potrebbe richiedere tempi maggiormente dilatati. Per quanto riguarda la partecipazioni alle missioni Psdc, uno studio della Camera dei Lord faceva riferimento alla possibilità per Londra di avere un seggio formale nel Comitato Politico e di Sicurezza dell’Ue - ipotesi discussa anche in altre capitali europee. In tal modo la Gran Bretagna potrebbe partecipare alla definizione e pianificazione delle missioni cui partecipa, mantenendo pertanto un ruolo attivo a livello sia politico che militare. Visto però l’indebolimento del governo May, non è certo che Londra avrà la forza necessaria per giungere ad un accordo di questo tipo. Piuttosto, l’Ue potrebbe insistere per utilizzare l’esistente quadro normativo europeo, che prevede la possibilità per Stati terzi di partecipare militarmente alle missioni europee senza essere parte del processo politico che decide e pianifica l’intervento. Ciò che è certo al momento è che il Regno Unito, quale membro dell’Alleanza Atlantica, continuerà a partecipare alle operazioni e attività della Nato. Pertanto, anche nel caso del mancato raggiungimento di un accordo tra Londra e Bruxelles sulle missioni Psdc, la cooperazione militare tra Regno Unito e stati Ue membri Nato continuerà nel quadro transatlantico. In materia di industria e mercato della difesa, la situazione è estremamente complessa perché dipendente dai termini dell’accesso britannico al mercato Ue, ovvero il principale nodo dei negoziati tra Londra e Bruxelles. Qui si ritorna alla scelta, da parte di un indebolito governo May, di insistere o meno su una “hard Brexit” scelta come bandiera dopo nove mesi di incertezza - tanti ce ne sono voluti tra il referendum e l’attivazione dell’articolo 50 da parte di Londra - e in un certo senso sconfessata dalle ultime elezioni. A urne chiuse, la nebbia non si dirada sulla Manica. Alessandro Marrone, Responsabile di RicercaProgrammaSicurezza e Difesa (Twitter @Alessandro__Ma) Ester Sabatino, Junior Fellow ProgrammaSicurezza e Difesa (Twitter @Ester_Sab1). | ||||||||
domenica 18 giugno 2017
Dalla padella alla brace
Elezioni politiche GB: la hybris della May, l’avanzata di Corbyn Lorenzo Colantoni 09/06/2017 |
Nei primi sondaggi, c’era un distacco di oltre venti punti tra il suo partito e quello conservatore. I risultati finali, danno ai laburisti solo una cinquantina di seggi in meno rispetto ai tories e i numeri per potere fare addirittura un governo con l’eventuale supporto del partito nazionale scozzese, l’Snp, in netto calo, e dei liberal-democratici. La May sperava di riuscire quasi a spazzare via i laburisti da Westminster e, invece, Corbyn e i suoi ne escono rafforzati.
Se il quadro è positivo per Corbyn, la situazione rimane complessa per il Regno Unito in generale. Il risultato che emerge è un hung parliament, cioè una composizione del Parlamento in cui nessun partito ha la maggioranza e bisogna quindi ricorrere ad una coalizione di governo, oppure ad alleanze ad hoc su questioni centrali come il budget. E sussiste la possibilità di ulteriori elezioni, nel caso in cui né la May né Corbyn fossero in grado di formare un governo con la fiducia dalla Camera dei Comuni.
L’incertezza più grande riguarda i negoziati per la Brexit, che dovrebbero iniziare il 19 giugno. Il risultato paradossale di queste elezioni è così quello di lasciare il Regno Unito senza una chiara guida nelle trattative per l’uscita dall’Unione, nonostante il voto fosse stato indetto alla ricerca appunto d’una strong and stable leadership perché la May voleva avere una mano forte nella Brexit.
I risultati sorprendenti
Per una volta, il risultato finale ha rispettato gli exit poll, con i conservatori in maggioranza, ma in calo rispetto ai risultati delle elezioni nel 2015. Il partito di Corbyn ha guadagnato una trentina di seggi, i tories ne hanno persi una dozzina. Un risultato che conferma anche l’andamento dei sondaggi nei giorni immediatamente precedenti il voto.
L’arretramento dei conservatori era iniziato a metà maggio, quando i laburisti avevano iniziato a eroderne il vantaggio di oltre venti punti; guadagnando posizioni anche in Scozia sull’Snp, i laburisti erano riusciti ad arrivare a un distacco del 5/7%: a conti fatti, è stato appena del 2%.
I sondaggi sono stati confermati anche dagli altri partiti; l’Snp perde un numero abbastanza significativo di seggi (18, arrivando a 34), i liberal-democratici ne guadagnano invece una manciata, per a 12. Il primo, quindi, non replica il successo del 2015, ottenuto sull’onda del referendum per l’indipendenza, mentre i secondi non riescono a fare risorgere il partito, come sperato da molti (Economist incluso).
Interessante è vedere la mappa del voto, che da un lato ricalca quella della Brexit, dall’altra presenta alcune novità. Se infatti la campagna per una hard Brexit conferma le riserve delle grandi città britanniche, Londra principalmente, rispetto alla linea dei conservatori (sono le aree urbane che avevano largamente votato per il Remain), alcune zone dove Leave aveva ottenuto un netto favore tornano, invece, sotto il controllo dei laburisti: tra queste, il Galles, il Nord Inghilterra e le ex aree industriali intorno a Liverpool e Leeds.
L’elezione, infine, lascia alcuni caduti sul campo; perdono infatti il proprio seggio personaggi storici della politica britannica come Nick Clegg, l’ex leader dei liberal-democratici, Angus Robertson, una delle figure più rilevanti dell’Snp a Westminster, e Alex Salmond, l’ex primo ministro scozzese, che aveva guidato il partito nel referendum per l’indipendenza del 2014.
La campagna elettorale
Difficile dire quali siano stati gli elementi decisivi per giungere a questo risultato perché i fattori in campo sono molteplici. C’è stata però una grande evoluzione dei discorsi elettorali nel corso delle ultime settimane, e non solo sul tema della sicurezza.
Al momento della decisione della May di tenere le elezioni anticipate, il tema centrale era infatti la Brexit: questo era il campo di battaglia scelto del primo ministro, che contava di riuscire ad ottenere una forte leadership politica anche sul fronte interno, proponendosi come il leader adeguato a condurre il Paese nel processo di uscita dall’Ue.
L’idea era quella di portare ai Tories i voti del Leave del referendum del giugno 2016, e in generale quei quattro milioni di voti dati allo Ukip nelle elezioni del 2015 che, con l’uscita di scena del leader Nigel Farage, erano disponibili - infatti, lo Ukip è praticamente sparito.
Nel corso delle settimane, però, il tema dell’Ue si è fatto man mano da parte, per lasciare posto ad un discorso più ampio su argomenti chiave come tassazione, sistema sanitario nazionale, sicurezza. Non a caso, lo slogan strong and stable usato dai conservatori all’inizio della campagna è scomparso nelle ultime battute e non è mai stato usato durante il dibattito televisivo tra la May e Corbyn del 29 maggio.
Corbyn è così riuscito a capitalizzare voti su una maggiore solidità nelle argomentazioni e su una debolezza sui temi chiave da parte della May: sono costati cari alla May, che proponeva una stretta contro il terrorismo, i tagli alle forze di polizia di cui lei è stata responsabile da ministro dell’Interno.
Un fragile futuro
Le opzioni per il Regno Unito sono diverse, quelle funzionali sono poche. Il primo ministro britannico potrebbe rassegnare le dimissioni: convocare queste elezioni è stato un azzardo che molti non hanno gradito, anche all’interno dei Tories, soprattutto per la ricerca di legittimazione politica personale che molti hanno percepito come una delle ragioni chiave (considerando che i conservatori avevano già una maggioranza netta in Parlamento).
La corsa al nuovo leader del partito sarebbe aperta, con il ministro degli Esteri e noto Brexiter Boris Johnson in cima alla lista, insieme all’Home Secretary Amber Rudd e al ministro per la Brexit David Davis.
Chiunque sia il leader conservatore, il futuro del Regno Unito è probabilmente quello di un governo di coalizione, in cui iTories non avranno vita facile: i Liberal-democratici hanno già escluso una collaborazione con i conservatori, impossibile anche quella con altri partiti, l’Snp in primis.
È quindi da ipotizzare una difficile coabitazione con i laburisti. Esiste però la possibilità che venga presentato un governo di coalizione di minoranza proprio da Corbyn, visto che i numeri lo consentono e considerando il supporto che ha già ricevuto da Snp e Lib-dem. Quella che la May ha chiamato la “Coalition of Chaos” diventerebbe così realtà.
Esiste infine la possibilità di nuove elezioni, nel caso in cui non si riesca a formare un governo; un’opzione forse interessante nell’ottica di avere un governo stabile per affrontare i negoziati sulla Brexit (quello che cercava la May e che queste elezioni invece le hanno negato), ma che ridurrebbe ulteriormente il già poco tempo a disposizione (ormai meno di due anni) per concordare l’uscita con l’Ue.
Lorenzo Colantoni è Junior Fellow presso lo IAI (Twitter@colanlo).
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